Toy - Join The Dots

di MonkeyBoy, Vinylistics

14 Dicembre 2013

Voto: 8/10

C’è questa band che si chiama Joe Lean & The Jing Jang Jong, composta da compagni di scuola londinesi, di cui fanno parte anche il cantante e chitarrista Tom Dougall (tra l’altro fratello di quella gnocca di Rose Elinor Dougall delle Pipettes), il chitarrista Dominic O’Dair ed il bassista Maxim ‘Panda’ Barron; hanno fatto uscire un paio di singoli di cui tutti parlano bene, hanno pronto un album d’esordio che l’NME con la solita pacatezza ha recensito con un bel 8/10 e stanno per spaccare i culi. E poi? Vuoi per il nome che non può che portare brutto, vuoi per altre ragioni sconosciute ai più, quel debutto non uscirà mai, la band di scioglierà nel 2009 tra pianti e rimpianti e l’anno successivo i tre sopracitati, insieme al batterista Charlie Savidge ed alla tastierista spagnola Alejandra Diez, daranno vita ai TOY. Grazie Gesù.

Sei mesi dopo, il nuovo gruppo firma per la Heavenly Recordings (la stessa dei Temples, per dire), gira per i festival e suona con e per vari gruppi, tra cui i The Horrors che li prendono sotto la loro ala protettiva. Nel 2011 è il momento del singolo di debutto, Left Myself Behind ed il 10 settembre 2012 – dopo solo due settimane di registrazione e mixaggio – pubblicano il loro primo album, TOY. Prodotto da Dan Carey (The Kills, Mystery Jets), acclamato ovunque e messo nelle classifiche di fine anno da molte riviste specializzate, TOY è un condensato di post-rock, shoegaze, krautrock e psichedelia, dove la band mostra sapienza tecnica, gusto per la struttura jam delle canzoni e nessuna paura a palesare le proprie influenze ed ispirazioni. Poco più di un anno dopo è la volta del sophomore: Join The Dots viene rilasciato il 9 dicembre scorso ed è l’ultimo grande album di questo incredibile 2013 musicale.

E’ un lavoro piuttosto ambizioso, che cresce ascolto dopo ascolto gettando prima i semi, per poi germogliare lentamente ma impietosamente. L’obiettivo è piuttosto chiaro, i TOY vogliono bilanciare le due spinte centrifughe della loro produzione musicale, il noise e la melodia, riuscendo a trovare un perfetto equilibrio lungo tutti i 60 minuti di questo LP. Se l’esordio riusciva a portare al grande pubblico il gusto pischedelico della band, questo album insiste forte sulla sperimentazione fin dalla prima traccia che, non a caso, si intitola Conductor. Una opener tutta strumentale, circa 7 minuti di synth avvolgenti ed un semplice quanto ripetitivo beat, che finisce poi per esplodere letteralmente, tra pause e riprese, in strazianti tirate di chitarra piene di riverbero; stabilisce il livello di quello che sarà, mostra una band alla ricerca del proprio miglior sound, suona Pink Floyd e se ne fotte della critica. Dopo questa sbronza, i TOY rivelano immediatamente l’altro lato della medaglia, quella magistrale capacità di controllo che permette loro di coniugare grandi melodie e architetture dreamy, qualità che in parte è dovuta alla produzione di Carey, che non permette quasi mai alla band di sconfinare nell’auto-indulgenza ma che nemmeno soffoca la loro creatività. You Won’t Be The Same e As We Turn sono, dunque, la sintesi di quanto appena detto, con la prima che aderisce ad un songwriting pop piuttosto convenzionale - una specie di shoegaze con chitarre jangle, che non poco ricorda i Beatles e che suona come qualcosa dei CaN edulcorati – mentre la seconda, un po’ più deboluccia, ha comunque il merito di evidenziare la sapienza con cui i 5 londinesi mischiano gli elementi, cedendo qua e là alla tentazione jam ma sempre con garbo ed eleganza.

Come fossimo in un laboratorio di chimica, arriva puntuale il momento della sintesi che chiude una prima parte dell’album davvero notevole: Join The Dots è il sospirato equilibrio accennato prima, un’ impressionante suite in quattro parti in puro stile TOY, che facilmente rimanda a brani come Kopter o la stessa Left Myself Behind, ma che porta il livello ancora più in alto. Il basso funky quasi disco e l’organo disarmonico dell’inizio, lasciano poi il posto ad un ipnotico wall of sound intriso di krautrock che si gioca tutto sulla dualità basso/sintetizzatore. La traccia scivola in una seconda parte di piena progressione – dove a farla da padrone sono chitarre incontrollate, batteria Motorik e pedale ovviamente shoegaze –, muta senza soluzione di continuità in un momento nuovamente cantato e melodico, dove la voce controllata e volutamente inespressiva di Dougall crea il giusto contrasto, per poi decollare in un’ultima fase spaziale, una cacofonia di suoni che va avanti fino alla fine, come lo strillo assordante di un bambino. Impressionante.

Da qui inizia una seconda parte di Join The Dots che sa più di dream-pop, più rilassata se vogliamo, ma mai conservativa. To A Death Unkown è davvero un momento di ripresa, un respiro fatto di una parte vocale vellutata e poco più che sospirata, una ritmica meccanica piena di Neu!, un basso overload e chitarre ariose, tutte cose che davvero moltiplicano gli spazi e la profondità della forma canzone. La successiva Endlessly è uno dei punti massimi dell’intero LP, uno shoegaze intriso di grandi melodie che fonde le tendenze psichedeliche (e kraut) di sempre con un gusto assai maturo per la sensibilità più indie; un lavoro space-rock che ribadisce la vittoria della melodia sulla mielosa indulgenza e che forse restituisce la migliore interpretazione vocale tra tutte le 11 tracce dell’album.

Va detto che, come negli esordi dello scorso anno, non manca una certa ripetitività – di suoni e di voci – che però poi vai a vedere e rappresenta un valore aggiunto, perché non stanca mai e funziona dannatamente bene nella musica dei TOY. Il finale infatti è affidato, tra le altre, a due canzoni che si fondano proprio sulla ripetizione dei giri di basso e sulla ricerca di una certa atmosfera. Da una parte Left To Wander ricorda vagamente i New Order, ha una melodia accattivante sorretta, tra l’altro, da una parte vocale che incredibilmente varia in senso incrementale la propria annoiata tonalità e che rende lo spazio attorno a sé molto rarefatto. Dall’altra parte la conclusiva Fall Out Of Love è immersiva, quasi dieci minuti di basso cupo e voce avvolgente innestati su un drone perpetuo, con continui cambi alto/basso che innalzano di tono la canzone, la rendono più elegante prima del lungo finale che trasporta il brano in una jam infinita nello spazio e nel tempo. Non si può non fare un paragone con la conclusione del debutto, ma là dove Kopter era ruvida pur nella sua magnificenza, qui c’è più eleganza, più consapevolezza dei propri mezzi.

Join The Dots è un grande album, l’ultimo colpo del 2013; rispetto a TOY forse mancano in quantità i pezzacci alla Motoring, occorrono un po’ di ascolti per entrare nel giusto mood e forse sì, bisogna mettersi lì con calma ed unire i puntini per avere un quadro generale della cosa, come da bambini scemi con la Settimana Enigmistica. Perché quell’album era più immediato – costruito in fretta e furia forse per paura di fare la fine dei Joe Lean – mentre questo difetta un po’ nella varietà e non costituisce una vera e propria evoluzione; ma ciò è per forza di cose un male? No, perché dove manca un progresso evidente c’è una maggiore completezza e ricercatezza. I TOY con la loro volontà di dimostrare a tutti di saperci fare anche col lato più pop della loro musica, danno vita ad un lavoro coeso e di grande qualità, espandono i loro limiti ed alzano tremendamente l’asticella delle aspettative per quello che verrà.

 
 

Tratto da:
vinylistics.altervista.org

Links utili:
http://toy-band.com
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