Per favore mordimi sul collo

Recensione del film "Venere in pelliccia" di Roman Polanski

26 Novembre 2013

“Nel sadomasochismo c'è qualcosa di non molto diverso dal teatro”. Roman Polanski

Una lunga carrellata in piano sequenza attraversa un viale alberato sotto un acquazzone molto parigino. Ci prende per mano e ci porta a varcare le porte di un teatro. Dalla scritta THEATRE che campeggia sopra l'ingresso è caduta la lettera H. Suggerimento che forse manca qualcosa, o forse in quello spazio vuoto c'è qualcosa in più. Le locandine ci danno notizia della rappresentazione di un musical western ispirato a Ombre Rosse, ma non questa sera. Ci ritroviamo chiusi dentro e abbiamo subito la certezza che non ne usciremo più. Nello spazio alla fine delle poltrone, sotto un palco dominato da un enorme cactus dichiaratamente fallico, il regista Thomas Novachek (cognome polacco?) impreca ad alta voce contro le inutilmente provinate aspiranti alla parte di Vanda von Dunajev, eroina del romanzo del 1870 di Leopold Sacher-Masoch da cui l'imprudente Thomas ha tratto l'adattamento per la sua pièce teatrale. Una sequenza di putain e merde a deliziare chi ha optato per la versione in originale sottotitolato. Che in giro c'è, bisogna cercarla, perché le sale che hanno l'intelligenza di proporla sembra si vergognino di pubblicizzarla adeguatamente. Ma questa è un'altra storia. Quella di Venere in pelliccia prosegue facendo entrare Lei. Tuoni e fulmini si scatenano sopra il teatro. E' fradicia di pioggia, bionda, impetuosa, genere trivial-sexy, in esagerato ritardo, vuole sostenere ugualmente il provino, non sputa la chewingum. Si chiama Vanda.

Sono passati solo pochi minuti e Polanski ci ha già rinchiuso nella sua sala degli specchi. Anche lui ha adattato il suo testo da una pièce teatrale, di David Ives. Per una volta è lui a specchiarsi, anche se noi non lo vediamo, come accadeva per i vampiri del suo film più leggero del quale qui il paradigma viene capovolto: il morso sul collo genera piacere, Masoch insegna. Si specchia in Thomas, interpretato da Mathieu Amalric, attore ma anche regista, che ha la faccia di quando Polanski interpretò China Town. In Vanda, che è Emmanuelle Seigner, sua moglie da ventitrè anni, 80 lui, 46 lei. Chiude tutto in uno spazio ristretto, accade tutto in tempo reale, siamo agganciati immediatamente. L'unità di tempo e di luogo del suo primo Il coltello nell'acqua con soli tre interpreti, che nell'ultimo Carnage, perfetto congegno teatrale da Yasmina Reza, circoscriveva l'azione dei quattro personaggi wasp all'interno di un salotto perbene, è riproposta nel luogo topico della recitazione e ridotta a due soli interpreti. Essenziale. Totale. Quello che segue è un incontro-scontro in cui ruoli e posizioni, nella prova della recita teatrale e nella definizione della realtà, si scambiano e si sovrappongono in un gioco che arriva a renderne difficile l'identificazione. Un sistema a orologeria che paralizza qualsiasi tentativo di previsione.

Attorno alla sottomissione e al piacere che può derivarne Polanski sviluppa una serie di declinazioni saldamente incardinate al rapporto sadomasochista intercorrente per definizione tra regista e attori. Suggestioni che, attraverso la finzione della messa in scena della sensualità e del dominio, sottolineano l'ambiguità dei ruoli che le convenzioni sociali hanno assegnato all'Uomo e alla Donna. La borsa di Vanda è la borsa di Mary Poppins, è la valigia dell'attore. Ma inesorabilmente concreta è l'azione della donna finalizzata ad avvolgere l'uomo nel suo disegno. E' il bagaglio di vita vissuta di Polanski a emergere in controluce dietro le reazioni altalenanti del suo alter ego. Seigner con grande smalto rende via via indecifrabile la vera natura di Vanda facendoci entrare, uscire e poi di nuovo rientrare nella sua strategia per ottenere la parte. Semina indizi, salvo poi camuffarli. Camuffandosi lei stessa, reinventandosi e spiazzandoci, proprio come accade al regista (quello vero...? quello che vediamo nel film...? a chi appartengono quelle idiosincrasie...?). Nessun tempo morto, nessuna sbavatura, un gioco di incastri per un meccanismo di precisione a tempo. Un dispositivo per stimolare riflessioni sull'eterna e irrisolvibile questione della parità dei sessi. Ironico e sensuale, sofisticato e beffardo, esercizio di intelligenza e di stile. Un prisma che scompone il fascio di luce generato da un' intrusione improvvisa e intrigante nei colori che compongono la complessità dell'incertezza dell'animo umano.

Eternamente in bilico tra pulsione al dominio e all'essere dominato. Talvolta pericolosamente esposta ad atti di sabotaggio.  

di Marco Rigamo

 
 
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