Mark Lanegan Live Report

Martedi 19 novembre - Teatro Corso di Mestre

26 Novembre 2013


Mark Lanegan è la sua voce. Bastano il suo inconfondibile timbro baritono e la sua voce graffiante ad inchiodare ed ammaliare un’intera platea. A dimostrarlo la minimale formazione con cui il tenebroso cantautore americano si è presentato martedì 19 novembre al Teatro Corso di Mestre (VE). Nessuna percussione o batteria. Lo accompagnano due chitarre ( e che chitarre...Jeff Fielder e Duke Garwood), poi violino, violoncello e basso. Un’ora e mezza di spettacolo per presentare le sue ultime uscite discografiche, ben due pubblicate a distanza di pochi mesi una dall’altra: Black Pudding e Imitations.

L’atmosfera sul palco è sulfurea, surreale. Flebili fari rossi illuminano la band. La luce traccia a malapena le sagome, tra le cinque è la centrale che spicca: è immobile, si regge sull’asta del microfono, di poche parole, se non qualche “thanks”. Poco importa, nessuno del pubblico vuole o si aspetta una di quelle frasi ammica-pubblico, che gli artisti stranieri ci riservano quando vegono a trovarci. Mark Lanegan, non è di certo il tipo, lo sappiamo.
Il concerto parte con dei classici come When your number isn’t up e One way street, l’atmosfera si scalda però definitivamente con una suggestiva rivisitazione di The Gravedigger song per proseguire poi con Phantasmagoria Blues. Suonano grandiosamente i brani estratti da Black Pudding, album uscito la scorsa primavera, frutto della collaborazione con il chitarrista polistrumentista Duke Garwood. E questo tour ha la fortuna di ospitarlo come membro ufficiale della band che affianca Lanegan. Garwood è uno straordinario musicista, un chitarrismo primitivo il suo, marchiato profondamente dal blues, che sposa perfettamente la voce maledetta del cantautore. Ne son prova brani come Mescalito o Driver, note che potrebbero accompagnare lunghi viaggi di riflessione senza meta tra i deserti più reconditi.

La setlist si sposta poi ad Imitations. Definire questo disco un “cover album” suonerebbe estremamente riduttivo. Le canzoni proposte vengono sconvolte e personalizzate, cosa che si nota ancora maggiormente nell’approccio live. L’intensità di esecuzione fa coglier quanto abbiano significato per l’artista i brani proposti. Ne emerge un artista divertito, compiaciuto di quanto esegue, lo si vede in Mac The Knife e ancor meglio in Pretty Colors. I momenti più alti li si raggiunge con la cover di Nancy Sinatra You only live twice dove le pause degli strumenti lasciano sola la voce del cantante, ed è qui che la si può cogliere in tutta la sua essenza. Non manca un tributo al recentemente scomparso Lou Reed con una Satellite of Love degna di nota. 

On Jesus programs chiude la scaletta, Mark ringrazia e saluta ripetendo “On Jesus programmes”, come una sorta di benedizione che suona da ammonimento al pubblico. La platea, dimostratasi educata fino ad all’ora lo richiama e acclama.  Lanegan rientra accompagnato solo dal fidato Jeff Fielder. Si chiude con un ritorno al passato: parte il riff di Halo of ashes degli  Screaming Trees. C’è spazio anche per un solo di chitarra che vorrei non finisse mai, tanto che anche Mark si siede ed ascolta cosa ha da dire Jeff, straordinario chitarrista, che ha dimostrato per tutto il concerto di avere piena complicità con l’ex Screaming Trees.


Ho aspettato qualche giorno prima di stendere questo live report, per far passare gli entusiasmi del momento. Il mio parere non è cambiato. Quando l’essenzialità si fa potenza credo si possa parlare di genio e grandiosità. Sono convinto che artisti come Lanegan siano sempre più rari. Una voce nuda e cruda che ammalia una platea, che rende la musica misticismo, che da sola sa catturare e rapire i propri ascoltatori nel suo “inferno personale”. Mark Lanegan raccoglie attorno a se il suo pubblico, racconta storie di vita che emergono dagli abissi del blues e trasudano la dannazione del rock.

Filippo Stocco per Sherwood Live Report

 
 
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