Venezia 70. Impressioni ragionate di un sottotitolatore (molto) normale e inviato (un po') speciale

di Michele Zanatta

20 Settembre 2013

Venezia 70, 28.08.2013 - 07.09.2013.
Che dire di una 70° Mostra che mi ha colpito per intensità, densità, forza e direzione di contenuti e forme? Da dove iniziare?

La regola e la professionalità giornalistica, “lo stare sul pezzo”, mi imporrebbero di cominciare dal film vincitore del Leone d'Oro, vale a dire da “Sacro GRA”. Ma io il film di Gianfranco Rosi non l'ho visto – e mica perché non volessi, anzi. Non ho semplicemente trovato il tempo per farlo - Così aspetterò trepidante la sua uscita in sala (fissata in un primo momento per il 26 settembre e ora anticipata di una settimana), visti e sentiti anche i commenti così discordanti su questo documentario che ha riportato il Leone d'Oro in Italia, 15 anni dopo “Così ridevano” di Gianni Amelio. Era il 1998, pensate un po'.

Ma rimaniamo in territorio nazionale, perché a Venezia, quest'anno e ancora una volta, ho capito che il cinema italiano è più vivo che mai.
In concorso per il Leone d'Oro, oltre a “Sacro GRA”, l'Italia in questa edizione portava ben altre due opere: “Via Castellana Bandiera” di Emma Dante, e "L'intrepido” di Gianni Amelio.

“Via Castellana Bandiera”, interpretato, tra gli altri, dalla stessa regista Emma Dante, da Alba Rohrwacher e da Elena Cotta, è un film che parla dello scontro tra due donne in un paesino sperduto e non meglio identificato della Sicilia. Le due donne, rappresentanti di due generazioni e stili di vita diversi, si ritrovano una di fronte all'altra alla guida delle rispettive auto in una stradina in cui solo una delle due auto riesce a passare, ma nessuna delle due vuole cedere il passo. Questo è il pretesto da cui si muove la Dante nel dirigere il film, alla sua prima esperienza col lungometraggio dopo una vita sui palchi dei teatri di tutta Italia e soprattutto della sua Sicilia. Il film è in buona parte giocato sugli sguardi dei personaggi, in particolare delle due protagoniste, Rosa (Emma Dante) e Samira, interpretata da Elena Cotta, una delle più celebri attrici teatrali italiane che da ventisette anni gestisce col marito e collega Carlo Alighiero il Teatro Manzoni di Roma.

Samira è una donna che la troppa sofferenza ha ridotto a una vecchia senza più parole”, racconta Elena. “In auto, persa in una sconfinata solitudine, incrocio l’auto di Rosa. Siamo in un vicolo di Palermo, un budello: se una delle due non fa marcia indietro, non si passa. Le donne si fronteggiano, improvvisamente nemiche: entrambe non vogliono cedere, non vogliono dargliela vinta al mondo...”, continua. “Ho lavorato benissimo con Emma. E' stato un lavoraccio, ma con la sensazione bellissima di aggiungere qualcosa di essenziale al mio percorso professionale” chiosa l'attrice, che con la sua interpretazione, fatta d'intensità di sguardi e profondità d'espressione e senza quasi proferire parola (dice solo poche battute in albanese in un sorprendente rivelatorio finale), ha colpito a tal punto la giuria di Venezia 70 da assegnarle la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile.

Il film, per l'ambientazione, lo sviluppo e le sue dinamiche corali - l'intero paese sarà coinvolto nella vicenda - sembra arrivare direttamente da una novella di Verga, contestualizzata però in un moderno duello western tutto al femminile che intreccia dramma a commedia, pathos siciliano a dissacrante ironia. E' un film che ha diviso sia la critica che il pubblico. Assolutamente da vedere.

Passiamo al terzo film italiano in concorso, “L'intrepido” di Gianni Amelio, al quale, a mio parere, sono state rivolte critiche ingiuriose, e sul quale scriverò una specifica recensione nei prossimi giorni, appena riuscirò a rivederlo in sala - il film è già nelle sale italiane dal 5 settembre, il giorno successivo alla presentazione a Venezia 70.

“L'intrepido” è la storia di Antonio Pane (Antonio Albanese), un meridionale di 46 anni, emigrato a Milano, separato, che di lavoro fa il “rimpiazzista”. Antonio lavora a giornata, a volte a ore. Sostituisce chi, per qualche motivo, non può andare al lavoro quel giorno. Il tutto avviene illegalmente, cioè fuori dalle regole attualmente in uso nel mercato del lavoro italiano - che sono tanti legali quanto ingiuste, ma qui apriremmo un'altra parentesi, e questa non è la sede adatta. Infatti Antonio, per lavorare, si affida a un uomo senza scrupoli della malavita milanese che di volta in volta gli trova il rimpiazzo, il posto da sostituire. Antonio vive questa sua vita, l'ennesima potenza del precariato da cui non siamo molto distanti nella realtà, con la massima serenità possibile, conscio che le possibilità che ha di lavorare, anche così, senza un futuro certo, stabile, sono tutto ciò che di buono ha. Si ritiene un privilegiato, insomma, perché “è fortunato chi ha lavoro, almeno può scioperare”.

L'altro bene prezioso che Antonio ha è il figlio Ivo, sassofonista. Ivo vorrebbe vivere di musica, ma soffre di attacchi di panico quando deve esibirsi, soprattutto di fronte a grandi platee. E poi non vuole svendersi, non vuole svendere la sua arte. Antonio incontra anche una ragazza più giovane di lui, coetanea del figlio, della quale si innamora, ma a cui non riesce a far comprendere i propri sentimenti.

Antonio fa mille lavori (io ne ho contati una quindicina nel film, forse sedici), non ha una vita stabile, né economicamente, né affettivamente, la sua esistenza potrebbe crollare definitivamente da un momento all'altro, vacilla lui e la gente che gli sta attorno, ma nonostante questo non si perde d'animo, caparbio e determinato. La sua qualità è la bontà, non conosce il cinismo, cerca di andare avanti, facendo spazio nel suo cuore a tutti gli imprevisti della vita, sapendoli affrontare sempre, non certo con spensieratezza, ma senza farsi abbattere. “A Lonely Hero” dei tempi moderni, insomma, come recita – per una volta appropriata – la traduzione inglese del titolo. E il riferimento al Chaplin di “Tempi moderni” si percepisce poi quasi fisicamente in Antonio, in un grottesco e surreale episodio narrativo sul finale del film. Amelio richiama il periodo storico dei film di Chaplin anche con un paio di scelte stilistiche di punteggiatura del cinema classico, come l'uso dell'iris, oltre che citando tra le righe qualche passaggio del cinema moderno italiano – ho notato almeno una chiara citazione da un celebre film del primo Nanni Moretti.

Antonio Albanese non è l'attore scoppiettante e irrefrenabile, schizofrenico e geniale che siamo abituati a vedere a teatro o nelle sue apparizioni televisive. Qui recita un po' sottotono perché è il film stesso a chiederlo, le esigenze narrative ed espressive, il tema affrontato che per qualcuno potrebbe rasentare la depressione. In un paio di scene di dialoghi devo anche ammettere che Albanese non è mi piaciuto, forse eccessivamente patetico e sussurrato.

Ma una delle scene finali, quando Antonio parla al figlio Ivo steso a letto sofferente per l'attacco di panico che l'ha colpito prima di un importante concerto, è da brivido. Da pelle d'oca per le parole di Antonio, per il girato e per il montaggio. Un padre che torna padre, tema caro ad Amelio anche in altri suoi film in cui indaga il rapporto padre-figlio. Un padre che dà forza al figlio, quasi a “rianimarlo”, letteralmente, etimologicamente ed affettivamente, come a riempirgli il cuore di coraggio, in un rapporto ritrovato perché mai fino in fondo perso.

Gianni Amelio, con “L'intrepido”, non ha toccato le vette di “Così ridevano” o di altri suoi capolavori, come “Ladro di bambini”, “L'America” o “Colpire al cuore”, ma amo questo film perché credo che colga nel segno i nostri tempi e lo spirito di alcuni coraggiosi. Non è esplicitamente un film di denuncia sociale. Semmai il senso di disagio per il momento storico che stiamo vivendo percorre il film costantemente ma sotterraneamente.

La denuncia, se c'è, è del pubblico che entra nel privato delle persone, nella loro quotidianità e intimità, rompendone le relazioni sociali, penetrando a fondo fino a smantellarle, fino a devastare il cuore di chi non ha forza e mezzi per reagire. E' il senso, lo spirito di Antonio che va premiato. E' un'ideale spinta a non perdersi d'animo, a non mollare, nonostante tutto. Nonostante la depressione che invade e pervade ogni cosa e persona. Nonostante il deserto, il vuoto culturale e istituzionale che abbiamo attorno. E' un invito a partire dal sé, e a ritrovarlo prima di tutto.

Rimanendo nell'ambito del concorso Venezia 70, ma spostandoci in ambito straniero segnalo “Die Frau des Polizisten”, di Philip Gröning, Premio Speciale della Giuria. Il film, 175 minuti, articolato in 59 capitoli, è il classico film da festival del cinema che non troverà mai distribuzione nelle sale italiane. Purtroppo. E il rammarico, questa volta, è doppio, se non triplo, perché al di là del suo valore, è un film che ha curiosamente riscosso buon consenso sia di pubblico che di critica, cosa che, soprattutto nei festival, avviene assai di raro.

Il film indaga il rapporto familiare tra Uwe, un giovane poliziotto, Christine, la moglie casalinga, e Clara, la figlia di 4-5 anni. Christine educa la figlia alla bellezza e alla natura, ma dietro un padre apparentemente premuroso si cela un uomo meschino e violento, da cui la donna non fugge, vittima della sua solitudine. Gröning ci offre un film di rara bellezza estetica e lunghi silenzi. Di ellissi e piani sequenza. Di preziosi dettagli e di immagini a volte incomprensibili al senso generale del film, dai connotati misteriosi, a tratti “lynchiani” azzarderebbe qualcuno.

E' un film che, nonostante la lunghezza, scorre via bene, placidamente ritmato dalle dissolvenze in nero d'apertura e in chiusura che cadenzano i capitoli, in un crescendo di tensione e di morbosa curiosità nel conoscere gli sviluppi della storia. E' l'occhio che vigila, vede e conosce, proprio come l'occhio della mdp esplora la casa della famiglia, mentre il mondo è fuori, non interagisce e non interferisce, non viene cercato. Tutto è interno, o interiore, anche le reazioni di Christine sembrano più implosioni che esplosioni. E Clara, la bambina, a fare da tramite, da ponte, da sistema di collegamento tra mondi, quelli interiori, umani, che cozzano tra loro, fino a collassare.

Rimaniamo in tema di violenza familiare passando a “Miss Violence”, diretto dal greco Alexandros Avanas, vincitore del Leone d'Argento e premiato anche con la Coppa Volpi a Themis Panou per la migliore interpretazione maschile.

“Miss Violence” è un altro film che ha scosso molto il pubblico del Lido, dividendolo tra sostenitori e denigratori, mentre pare che la giuria sia stata piuttosto concorde, soprattutto per il premio a Panou, assegnatogli all'unanimità. Il film di Avanas tocca ancora una volta il tema caldo della violenza familiare. Lo fa facendo entrare lentamente lo spettatore in quel mondo, accompagnandolo quasi per mano, tenendo l'azione, il dramma, inizialmente fuori campo, o mostrandolo attraverso fuori campo interni, per arrivare poi a mostrare l'oscenità pienamente, interamente e fastidiosamente in campo, in un piano sequenza a inquadratura fissa sulla figlia violentata tre volte consecutivamente da tre uomini diversi, tra cui il padre. Nulla di nuovo sotto il sole, dunque (e sotto l'occhio della mdp), purtroppo. Ma è la regia, in questo caso, ad essere stata premiata, che lavora in equilibrio tra come e cosa, nel rapporto tra la modalità del girato e del montaggio e il contenuto che sottende, l'idea (o vogliamo chiamarla ideologia?) di cinema.

Qualcuno ha perfino visto una metafora dell'Unione Europea in questo film, dove la nonna, la Miss Violence del titolo forse, rappresenterebbe la Merkel nel rapporto con gli altri Stati europei e il suo abuso di potere. Ma non chiedetemi di andare oltre questa analisi metaforica: non ne sarei capace.

Il Premio per la migliore sceneggiatura è andato invece a Steve Coogan e Jeff Pope per “Philomena” di Stephen Frears (Regno Unito). Il film, che non sono riuscito a vedere, ha messo d'accordo sia la critica sia, soprattutto, il pubblico, accolto in sala Grande il giorno della presentazione ufficiale da un lungo e commosso applauso. Era tra i candidati a vincere il Leone d'Oro, secondo alcuni. Altri, pur apprezzandone molto la qualità, lo ritenevano poco papabile, perché troppo “pop”. Sta di fatto che “Philomena” troverà ampia e sicura distribuzione in Italia (Lucky Red, uscita prevista il 6 febbraio 2014), e c'è già chi lo pronostica tra i probabili vincitori dell'Oscar per il migliore film straniero.

Il Gran Premio della Giuria - sorta di premio di consolazione, azzarderei – è andato invece a “Jiaoyou” di Tsai Ming-liang, una coproduzione Taipei cinese/Francia, che ha ampiamente diviso critica e pubblico. Il film, un cult per gli amanti del cinema orientale e dei lunghi piano sequenza a camera fissa, non sarà sicuramente distribuito nelle sale italiane, ma forse troverà diffusione in qualche canale tematico e nella programmazione notturna di RaiTre, come già successo lo scorso anno con “San zimei” (Three Sisters), di Wang Bing, una coproduzione franco-cinese, vincitore del premio come miglior film nella sezione “Orizzonti” e trasmesso pochi giorni dopo la fine della 69° Mostra su “Fuori Orario”.

Vorrei parlarvi di molto altro ancora, ma per oggi lo spazio a mia disposizione si sta esaurendo. Vi invito quindi a seguire i prossimi appuntamenti con le recensioni di Venezia 70, dove parleremo ancora di qualche altro film in concorso nella sezione ufficiale (“Tom à la ferme” di Xavier Dolan, “La Jalousie” di Philippe Garrel, e “Child of God” di James Franco), e tratteremo i film che ci hanno particolarmente colpito nelle altre sezioni (Fuori Concorso, Orizzonti, Venezia Classici e Proiezioni Speciali), tra cui “La prima neve” di Andrea Segre, “Piccola Patria” di Alessandro Rossetto, e “Eastern Boys” di Robin Campillo, e di alcuni altri nelle due sezioni autonome (Settimana Internazionale della Critica e Giornate degli Autori), tra cui “Zoran, il mio nipote scemo” di Matteo Oleotto, “L'arte della felicità” di Alessandro Rak, e “Tres bodas de más” di Javier Ruiz Caldera.

L'elenco completo dei premi ufficiali della 70° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica lo trovare qui: www.labiennale.org

 
 
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