David Byrne, St. Vincent Live Report

10 Settembre 2013 - Gran Teatro Geox - Padova

14 Settembre 2013

"Questo dev’essere il posto giusto", ed in effetti per due ore abbondanti lo è stato. Il concerto di David Byrne e St Vincent inizia come il passo sbagliato e distratto di un bambino talmente affascinato dall'idea che si sta facendo della traiettoria della palla sul muro, che inciampa sui lacci, cade, si sbuccia, sanguina e si incanta nuovamente, questa volta nel sapere che c'è vita dentro la vita, come dentro la musica c'è, ancora ad oggi, della musica.


 La musica sta già suonando, sul palco c'è David Byrne (capelli bianchi come la giacca), c'è Annie Clark (St. Vincent per qualcuno) con dei capelli biondissimi e riccissimi, ci sono otto fiati, un tastierista ed un batterista ai lati. Sono già al secondo pezzo e tu non ci hai ancora capito nulla, non hai ancora deciso (perché non può) chi soffermarti ad osservare, da chi farti trascinare: David Byrne non si prende la scena, ma con eleganza la passa alla chitarra, alla voce, al theremin di St Vincent, che la cede volentieri al basstuba ed agli altri sette fiati, in un gioco schematico e disinvolto di scenografie curate nel dettaglio, segno inconfutabile che l'arte è proprio una biglia che gira e che viene scagliata da una parte e dall'altra, contaminando e facendosi contaminare.
Se ci devono essere degli incontri, delle combinazioni, degli scontri giusti, questo è uno di quelli: il genio e la pazzia di Byrne incontrano e si scontrano con la tecnicissima follia di Clark generando uno spettacolo totalmente nuovo. La scelta di ridurre al minimo gli strumenti a corda (poca chitarra di Byrne rendono praticamente unica la chitarra di Clark) ed esaltare l'ampiezza di ben otto fiati (saxofoni, trombe, tromboni, bassotuba..), è già di per se geniale. La voce elettrica, fiabesca e folle di lei si mischia perfettamente con quella ancora inspiegabilmente giovane, vivace ed eclettica di lui, a volte come prima ed a volte come seconda, in un gioco di ruoli tutto da ridefinire, da rileggere, da curiosare, come nella realtà.
La batteria scavalca a piè pari gli anni ottanta, strizza l'occhio a tutti i batteristi del ventunesimo secolo e raccoglie spunti interessanti dagli anni settanta, quelli di found a job e take me to the river, per capirci.Gli effetti e le tastiere restano di giustezza molto talking heads. La mano di Clark è un’ estasi per l'orecchio e l'occhio: aggressiva, dolce, sincretica, rock!
I suoi movimenti, il passo stretto, i suoi capelli elettrici sono coinvolgenti, eccitanti, chimici: è come se una grande calamita facesse a tratti il suo dovere magnetico, ed a tratti ti lasciasse il tempo di respirare. Le coreografie curate nel particolare, le posizioni dei fiati che cambiano e si intrecciano ad ogni secondo (David si sa che è un cultore e precursore del marching band show, ormai dai tempi di stop making sense).
Le luci palpabili ed i suoni perfetti, gioiosi, intensi e mai troppi, correggono il passo ancora dirompente di David Byrne, in una sobrietà scenica molto teatrale.


Provare ad aspettarsi qualcosa di specifico da questo spettacolo è praticamente impossibile: la scena cambia in continuazione, il contesto pure, i protagonisti anche ma sempre senza virtuosismi (per fortuna e finalmente, direi) passando da pezzi molto pop ad aggressioni elettricamente rock; due bis trascinano il pubblico dalla lontana e scomoda sedia ad un sottopalco dirompente, in piedi, saltando, attraverso ciò che più di tutto poteva gasare: prima Burning down the house e poi road to nowere sono il banchetto perfetto per la malinconia, che si esprime in tutto il suo battere accelerato e nell’estasi di una pelle d’oca talmente grande da non farti nemmeno chiudere gli occhi.
Se St. Vincent volesse farsi conoscere, questo non lo so. Se David Byrne volesse rimettersi in gioco per l’ennesima volta, questo non lo so. Sono però certo che il puzzle di forme e suoni creato dall’intreccio di queste due personalità curiose è il massimo che in questo periodo di poca novità si possa chiedere dalla Musica live.

Mattia Di Carlo

 
 
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