Male Di Miele

La recensione di Miele, un film di Valeria Golino

23 Maggio 2013

"Sono fermamente convinta che tutti debbano poter decidere sul proprio corpo". Valeria Golino.

La boccetta di Lamputal si deve assumere tutta, tassativo, anche se è amarissima. Poi restano tre minuti circa per la cioccolata, o il Cointreau, o la vodka, o quello che più ci piace. E' l'ultimo desiderio del condannato a morte che si è impadronito dell'esecuzione della sentenza. Pagando il giusto per un servizio proibito, ma attento e preciso. Di quella particolare professionalità che connota le condotte clandestine. Un protocollo dettagliato che comprende anche la gestione della colonna sonora. Non induce dolore ed è arrestabile in qualsiasi momento: la giovane donna con i guanti di lattice chiederà se vogliamo interrompere tutto fino a quando non verrà superata la soglia del non ritorno. Il Lamputal è un barbiturico utilizzato per sopprimere i cani, di libera vendita in Messico. Miele lo va a prendere, ne organizza l'uso, segue il paziente (lo chiama così). E’efficiente e puntuale. A lavoro terminato se ne va con una busta gonfia di banconote. Suicidio assistito.

Valeria Golino, classe 1966, decine di film all’attivo come attrice, una che si sente straniera sia negli Stati Uniti che a casa propria, per il suo lungometraggio d’esordio alla regia si è ispirata al romanzo “A nome tuo” di Mauro Covacich (Einaudi) concorrendo alla stesura della sceneggiatura. Accolto molto positivamente a Cannes 2013, ma distribuito in misura forse troppo modesta da noi, Miele è un’opera prima tutt’altro che banale. Non solo per la scelta del soggetto, reso attuale da un confronto politico e culturale incapace di imboccare la strada della modernità, ma soprattutto per la sua chiave di affrontamento, che evita la trappola della presa di posizione di parte, come è invece stato per Bellocchio con il suo pur appassionato Bella addormentata, evidentemente riferito al caso Englaro. Golino mette in scena una storia molto contemporanea con stile asciutto, senza ammiccamenti al pubblico, in grado di emozionare senza scivolamenti nel melodramma. Esibisce la condivisione della scelta della trentenne Irene (Miele è il suo nome di battaglia) che non è ne ideologica ne umanitaria. E’un lavoro: difficile, rischioso, illegale, ma vissuto come necessario.

Dopo le prime inquadrature che ci fanno solo intuire cosa accade dietro le vetrate d’epoca di un’abitazione benestante seguiamo Jasmine Trinca, per la prima volta davvero convincente, in una sorta di doppio binario. Quello che la porta dai frequenti viaggi in Messico in giro per l’Italia a contatto con diversi strati sociali a praticare il suo servizio a malati terminali, indossando sempre la stessa divisa di angelo della morte, esibendo sempre lo stesso sguardo distaccato e professionale. Quello che la porta a sfiancarsi in bicicletta o in estenuanti nuotate nel mare d’inverno, con qualche intervallo di sesso superficiale, con qualche improvviso e inspiegabile dolore al petto, fino a che non incontra il settantenne ingegner Grimaldi, un Carlo Cecchi ancora e come sempre impeccabile. Che le provoca un corto circuito imprevedibile: dopo essersi fatto consegnare e pagato il kit le rivela di avere una salute di ferro, la sua sofferenza è la noia, il non desiderare più nulla. Sa essere cinico e sgarbato, eppure affascinante e colto. Quando Miele gli ringhia addosso di non essere un sicario lui le risponde “la gente malata non ha più diritto di me”. Dritto al cuore del problema.

Miele è un film importante. Per stessa ammissione di Golino ha come riferimento Le invasioni barbariche di Denys Arcand, che dieci anni fa fece riflettere senza sentimentalismo e senza cinismo sugli stessi argomenti. Quando Grimaldi critica l’estetica suicida del gettarsi dal quinto piano non si può evitare il ricordo di Mario Monicelli, quando argomenta sull’avere (bene) vissuto abbastanza il pensiero va a Lucio Magri, quando i suoi ragionamenti concorrono a modificare lo sguardo di Miele pensiamo al vuoto normativo che ci riguarda. E’ un mestiere quello di Miele, ma, come le sibila Iaia Forte in attesa di sbarazzarsi del fratello, “è proprio un mestiere di merda”. Così quando finalmente Irene (non più Miele) può verificare l’effetto delle correnti ascensionali del mausoleo Suleiman Kamuni di Istanbul, a noi resta il tempo per verificare la risposta delle nostre riflessioni a una questione cinematografica ed etica che ci ha catturato fino all’ultimo fotogramma. Senza espedienti, senza enfasi, senza colpi bassi. E chiederci se non c’è un’altra battaglia da fare.

 
 
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