Information retrival

Gli interrogatori sotto tortura Bigelow ce li butta in faccia senza fronzoli

19 Febbraio 2013

"Sapete quando le discussioni sulle tecniche di interrogatorio sono diventate irrilevanti, amici miei, se non assurde?" "L'undici settembre, stronzo" rispose Mitch. Mark Allen Smith ha colto in alcuni passaggi del "L’inquisitore" proprio questo punto.

Kathryn Bigelow con "Zero Dark Thirty" ci fa impattare emotivamente e visivamente con la realtà brutale delle torture, adottate come sistema dalle istituzioni - in questo caso gli Stati Uniti - per estorcere informazioni utili a "vincere" la guerra al "terrorismo". Gli interrogatori sotto tortura Bigelow ce li butta in faccia senza fronzoli.

A condurli non sono psicopatici, maniaci o schizzati vari ma raffinati professionisti dell’interrogatorio, freddi, razionali, distaccati, probabilmente plurilaureati nelle migliori università degli States.

Marco Rigamo nel recensire il film (vedi "Moterfucker") sostiene che Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal, in "Zero Dark Thirty" eludono la fondamentale domanda espressa dallo schermo: “perché è accaduto, cosa ha generato un odio di queste proporzioni, ci sono delle colpe su cui gli Stati Uniti e l’Occidente tutto dovrebbero riflettere?”. Quando poi Maya, l'analista della CIA protagonista della caccia a Bin Laden, nel finale del film, modificata nell’espressività e nella gestualità al termine dell’ossessiva caccia, dice ai Navy Seal che stanno partendo per la missione che si concluderà con l’assassinio dello Sceicco, "uccidetelo per me" e, a missione compiuta, sola nella carliga dell’aereo da trasporto militare USA, scoppierà in lacrime senza rispondere alla domanda rivoltale da un membro dell’equipaggio,“dove vuoi andare?”, comprendiamo quanto odio e fondamentalismo si sia accumulato anche in questa parte della “barricata” senza riuscire a comprenderlo se non, forse, indagando la parte più profonda e oscura di quell’insieme valoriale e del dogma individualista radicati in una buona parte della società americana.

Qualche risposta in tal senso arriva da un libro pubblicato da Mondadori nel maggio dello scorso anno, "L’inquisitore" di Mark Allen Smith. Smith mette in campo un esperto di R.I., "Information Retrival" come vengono definiti gli interrogatori sotto tortura nello spazio grigio in cui si muovono committenti di diversa natura, decisamente dediti al crimine, uomini della legge e persino funzionari delle agenzie governative di sicurezza. Con Smith precipitiamo sino dalle prime pagine nell’orrore delle tecniche di tortura per estorcere informazioni, confessioni, pentimenti.

Verso la fine del libro, quando Geiger, il protagonista della storia, si trova inseguito da un gruppo di “cowboy a contratto”, mentre uno di questi, durante le lunghe ore di appostamento in auto, ascolta un talck show radiofonico, si può cogliere una cicca del ventre molle, profondo, selvaggio e “popolare” dell’america più cupa e violenta, quella che ritiene la regolamentazione del possesso delle armi un attentato alla libertà individuale, quella che pensa che la vendetta sia una nobile azione necessaria, quella che non intende recedere dalla pena di morte, dal dogma dell’”occhio per occhio, dente per dente”.

Mitch il “cowboy a contratto” sta ascoltando un talk show il 4 di luglio 2004, giorno della ricorrenza dell’indipendenza degli Stati Uniti, tre anni dopo l’11 settembre 2001, in cui il conduttore dice:
Rieccoci […] Avete visto le foto della presunta ‘camera di tortura’ del Cairo? A me sembra uno scantinato sporco, ma i cosiddetti liberali illuminati, meglio conosciuti come deficienti, l’hanno di nuovo tirata in ballo, appellandosi ai diritti umani e al gusto del processo per i terroristi. E in questo giorno così importante, il 4 Luglio, voglio chiedervi una cosa: credete che quelle persone abbiano qualche amico o parente che combatte per difendere la loro libertà in Iraq e in Afganistan? Bè, perdonatemi, ma la risposta me la do da solo. No! Non ne hanno! E’ per questo che non capiscono cosa significa veramente la democrazia, perché per capirlo bisogna mettere a rischio qualcosa di importante, forse anche perdere qualcosa di prezioso e di caro, e non alludo a quando il cameriere vi dice che del vostro sushi preferito non è rimasto più niente.

E più avanti ancora:
Sapete quando le discussioni sulle tecniche di interrogatorio sono diventate irrilevanti, amici miei, se non assurde?
L’undici settembre, stronzo” rispose Mitch.

"L’undici settembre del 2001, quando dei fascisti islamici hanno tagliato la gola a otto piloti americani e hanno ammazzato più di tremila civili americani, ecco quando!"
Con questi passaggi del libro ritorniamo all’inizio di "Zero Dark Thirty" quando sullo schermo nero compaiono le traduzioni e sentiamo le voci in diretta di chi si trovava negli aerei dirottati o all’interno del World Trade Center la mattina dell’11 settembre 2001. Entrambi i momenti colgono il senso dell’incanalamento dei valori sedimentati da sempre nel ventre nero dell’America profonda nel fondamentalismo della guerra al terrorismo, a tutto ciò che possa minacciare lo status quo americano, senza limiti e regole, con ogni mezzo necessario.

Mark Allen Smith ha colto in alcuni passaggi del “L’inquisitore” proprio questo punto. Sceneggiatore cinematografico di lungo corso, esperto di giornalismo investigativo, con esperienze di produzione e regia in programmi televisivi d’inchiesta, Smith crea con Geiger un personaggio duro, spigoloso, misterioso e allo stesso tempo sgradevole – almeno sino a quando una delle sue regole viene infranta e si trova coinvolto in una caccia all’uomo in cui è lui ad essere cacciato e i mostri del suo passato gli presentano il conto – che ci introduce in una professione evidentemente presente nella società americana, fatta di esperti di tecniche coercitive e violente di interrogatorio, professionisti privati come i più conosciuti contractor della sicurezza, al servizio di chi paga ma anche, all’occorrenza, della “nazione”.

La storia mette a confronto diverse tecniche di interrogatorio, quella di Geiger, un vero talento del settore, improntata soprattutto sulla coercizione psicofisica dove la violenza viene utilizzata solo in forma mirata e da supporto all’intimidazione psicologica e quella di Dalton, altro professionista del ramo, che usa, invece, proprio la brutalità fisica dell’interrogatorio come chiave per estorcere le informazioni e piegare le resistenze del torturato. Non mancano in entrambi l’uso dei mezzi più recenti di tortura che abbiamo visto all’opera nelle prime scene di "Zero Dark Thirty" ma Geiger ha alcune regole da cui, normalmente, non transige. Nessun lavoro “urgentissimo” perché implicherebbe andare giù con la “mano pesante” con l’interrogato e lui, invece, preferisce soprattutto sgretolare psicologicamente le sue difese e resistenze. Nessun bambino: non si interrogano i bambini. Questa seconda regola si lega al mistero del passato oscuro di Geiger ma mi fermo qui per non privare nessuno del gusto della lettura di questo ottimo libro. Sta di fatto che la fortuita rottura di una di queste regole precipita la storia in una caccia all’uomo che rende adrenalinica tutta la seconda parte del libro.

Già in "Alias domenica” del “Il Manifesto” del 5 agosto 2012 – "Noir e dintorno. Tre spari dagli USA" - Luca Briasco faceva un grande elogio di questo libro, parlando di penetrazione psicologica e tensioni degne del miglior Thomas Harris, quello del "Il delitto della terza Luna" e del “Il silenzio degli innocenti” e di tratti innovativi pari solo al norvegese Jo Nesbo. Sinceramente andrei più cauto: si tratta di un’opera prima che risente del piglio da sceneggiatore dell’autore, specie nella seconda parte del libro dove i fili non sono più tirati sapientemente come nella prima parte ma che, come già sottolineato, ha il pregio di precipitarci nel cuore nero della democrazia così come la intendono Maya e gli agenti CIA della caccia ad Bin Laden e il conduttore del talk show ascoltato dal contractor nel “L’inquisitore”. E questo basta e avanza per farne una lettura da non perdere.


 
 

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