Motherfucker

“E' un resoconto molto crudo di quello che è successo”. Kathryn Bigelow

13 Febbraio 2013

Bigelow, dopo averci avvertiti che ciò che stiamo per vedere è basato su testimonianze dirette di fatti realmente accaduti, apre il suo ultimo lavoro su uno schermo buio. Voci al telefono, registrate. Voci vere, angosciate. Parole concitate di chi si trovava la mattina del 11 settembre 2001 nelle torri del World Trade Center, negli aerei dirottati o al centralino del numero di emergenza 911. Buio come l'oscurità di quella indeterminata ora della notte che in slang militare dà il titolo al film. Di seguito lo schermo si illumina su un uomo seminudo appeso per i polsi. Sul suo volto tumefatto. Su un altro uomo che pacatamente gli dice: “La tua vita, Ammar, appartiene a me”. L'uomo sembra l'esatto contrario di un aguzzino, ma è un interrogatorio - di quelli chiamati in gergo “rinforzati” - dei servizi americani in una prigione segreta, in terra straniera, mostrato crudamente e senza enfasi per quello che è: una seduta di tortura. Con tutto il suo armamentario tecnico, dalla musica heavy a palla al collare per cani al waterboarding. Con tutto il suo campionario umano, dalla manovalanza incappucciata al responsabile tattico a volto scoperto. Con un valore aggiunto. Quando si toglie il passamontagna scopriamo che è molto giovane, minuta, ha i capelli ramati e si chiama Maya. Analista CIA alla sua prima missione sul campo. Di lei dicono che è un killer. Sarà lei a fare la differenza. Sarà la motherfucker, come orgogliosamente si autodefinisce davanti al direttore dell'Agenzia, che riesce a identificare il corriere di Geronimo. Ad aprire per prima la body bag che contiene il cadavere di Osama Bin Laden. Perché lei è la cattiva coscienza dell'America. Lei è l'America.

Dando continuità al precedente The Hurt Locker (sei Oscar nel 2010 - prima donna premiata per la regia - storia malata di un artificiere drogato di guerra) Kathryn Bigelow con Zero Dark Thirty ritorna sul tema dell'ossessione, offrendolo come filo conduttore primario attorno a cui organizza un film solido, potente e complesso, strutturato in diversi piani di lettura. Un cavo elettrico che si snoda attraverso una guerra non convenzionale e non dichiarata, destinato a veicolare l'impulso che attiverà il detonatore del game over. Un'indagine extralegale e un processo segreto della durata di quasi dieci anni, in assenza di avvocati difensori, in spregio a qualsiasi simulacro di diritto internazionale e di controllo legale, che si conclude con una rapida esecuzione: “fate il vostro cazzo di lavoro, portatemi delle persone da uccidere” ringhia ai suoi agenti il capo settore inferocito dall'assenza di risultati. Due colpi sparati da un M4 silenziato. Una sentenza formulata tra le pieghe del Patriot Act, pacchetto di norme liberticide sottoscritto dall'amministrazione Bush jr. già nell'ottobre 2001, cui si devono Guantanamo, Abu Ghraib e chissà quanti e quali altri luoghi di detenzione illegale e di sevizie in giro per il mondo (per dire: vediamo interrogatori “rinforzati” condotti in una nave in Polonia) e che Obama ha comunque conservato, proponendone l'ultima proroga nel 2011. Anche se da uno schermo tv in secondo piano ci dice che in America non si tortura (sì, ma in Pakistan, in Giordania? in quali altri paesi complici?). Bigelow (classe 1951) e il suo compagno Mark Boal (vent'anni di meno) eludono la fondamentale domanda espressa dallo schermo nero (perché è accaduto, cosa ha generato un odio di queste proporzioni, ci sono delle colpe su cui gli Stati Uniti e l'Occidente tutto dovrebbero riflettere?) ma confezionano un congegno filmico ad alta capacità di coinvolgimento.

Boal, anche produttore, che aveva già ispirato il soggetto di Nella valle di Elah (Haggis, 2007) e scritto la sceneggiatura di The Hurt Locker, organizza il suo script attraverso un enorme lavoro di ricerca. E' lui a scovare le testimonianze dirette, a gestire le fonti di informazione all'interno dell'Agenzia, ad attirarsi gli strali dei Repubblicani che indagano sulla correttezza dei rapporti di cooperazione tra B&B e Langley, costringendo il film ad uscire dopo le ultime elezioni presidenziali. Sulla sua traccia Bigelow compatta ancora una volta un film che dentro un impianto classico fonde mestiere, intelligenza, forza, intensità, cinismo, innovazione tecnologica amalgamandoli in ritmo costante, scansione precisa e montaggio serrato prima di cambiare passo nel sottofinale, girato in tempo reale e mostrato attraverso gli autentici visori a infrarossi del Team 6 dei Navy Seal. Docu-fiction, inchiesta giornalistica e prosa cinematografica si intrecciano in un'operazione drammaturgica ad alta tensione, nella quale la politica viene accantonata per caricare tutto il peso di portarci a un finale che già conosciamo, in quanto scritto nella Storia, sulle spalle e sulle coscienze di uomini - ma soprattutto donne - che non si fanno domande, tanto meno quella rimasta irrisolta nei primi minuti di pellicola: devono solo arrivare alla meta, a qualsiasi costo. Tra le donne Maya stacca subito, buca lo schermo, si impone paralizzando la nostra sedimentata avversione verso ciò che rappresenta. Meglio: fa smarrire la nostra avversione nel tentativo di districarci nei meandri che connotano il processo della sua identificazione.

La giovane killer da poco uscita dal college, diventata adulta tra uffici anonimi e celle maleodoranti, sopravvissuta a due attentati, comprende principalmente in sé l'affermazione della donna in un mondo, in questi scenari più che mai, dominato dagli uomini. Proprio come la regista, film dopo film, premio dopo premio. La caparbietà che sconfina nell'ossessione, la castità esibita, la dedizione assoluta, il superamento dell'orrore e della repulsione, la sfrontatezza e la lotta contro il potere maschile, la trasformazione in Angelo della Vendetta (“uccidetelo per me”) appannano i nostri fondamentali, intorpidiscono la memoria, riducono la solidità delle nostre posizioni più politicamente corrette. Il corto circuito si compie definitivamente quando la missione è portata a termine. Quando, anche se non lo vediamo, il cadavere dell'uomo che ha (avrebbe) ordinato l'attacco alle Torri, al Pentagono, alla Casa Bianca viene fatto scivolare in mare da una portaerei. Quando nell'enorme aereo militare vuoto che deve riportarla in patria resta muta davanti alla domanda “dove vuoi andare?” e copiose lacrime scendono per la prima volta sul suo viso. La sua caccia, la caccia di una nazione, è finita. Non è solo un crollo di tensione emotiva: non ha più ragioni, non sa più dove andare, non ha più futuro. Nella assoluta semplificazione, particolarmente diffusa negli States, che concerne la lotta tra il Bene e il Male ha vinto il primo. Ma la domanda che intravediamo oltre le lacrime ci riguarda tutti: ora che il Nemico Pubblico n.1 non c'è più - il futuro, quello di noi tutti, che colore ha? siamo davvero usciti da quel buio?

 
 
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