ReadBabyRead #85 del 9 agosto 2012


Samuel Beckett: "Commedia" - "Ohio Impromptu"

9 Agosto 2012


Samuel Beckett
Commedia
Ohio Impromptu


per info su Franco Ventimiglia e Claudio Tesser:



www.letturaealtricrimini.it



Leggono: Franco Ventimiglia, Roberta Borghi, Donatella Ventimiglia

Nota: per quanto riguarda l'atto unico "Ohio Impromptu" (L'improvviso dell'Ohio, successivamente ripreso dai traduttori ufficiali Fruttero e Lucentini) si fa presente che la prima traduzione italiana è stata curata da Franco Ventimiglia e Claudio Tesser in occasione della rappresentazione teatrale (1982) di questo atto unico, unitamente alla piece "Rockaby", all'epoca inediti, da parte della compagnia teatrale "La bottega del Teatro" diretta da Dario Ventimiglia. Come appare dall'imagine dell'articolo, Samuel Beckett rispose di persona per iscritto a mio fratello Dario, approvando (con una sola correzione di suo pugno a matita e in italiano) sia la traduzione mia e di Claudio che l'autorizzazione a rappresentare i due atti unici, per la regia di Dario Ventimiglia.
L'atto unico "Commedia" (Play) fu rappresentato dalla nostra compagnia teatrale di allora al Teatro Goldoni di Venezia all'interno della Biennale Teatro del 1975, e successivamente adattato per la televisione e andato in onda su RAI TRE.

Franco Ventimiglia



Unicità di Beckett drammaturgo
di Dario Ventimiglia


Per approfondire alcuni aspetti tematici e strutturali dell'opera di Beckett, sarebbe senz'altro utile che venisse pubblicata la sua prima commedia Eleutheria (che solamente alcuni studiosi tra i quali H. Kenner e R. Oliva hanno avuto la fortuna di poter consultare personalmente, attraverso il manoscritto), significativa non solo come documento dell'approccio iniziale col teatro da parte di Beckett, ma anche come momento di analisi strutturale e di confronto interpretativo con la drammaturgia dell'avanguardia teatrale e dell'assurdo.
Gli elementi di aggancio e di legame al teatro dell'assurdo, già identificabili ad una lettura precisa dell'argomento e dell'evoluzione della «pièce», (non si può infatti parlare di una trama ordinata o di un filo logico, ma di situazioni e di attimi che vengono colti e analizzati in una frammentarietà che a volte può essere discontinua, a volte può presentare una sua continuità, a seconda delle intenzioni dell'autore) potrebbero più facilmente venire alla luce ed essere quindi anatomizzati e sezionati, con l'aiuto di una lettura documentata del testo vero e proprio.
Molti chiarimenti sull'indubbia influenza letteraria esercitata dall'ambiente parigino su Beckett verrebbero fuori (basta osservare, a tale proposito, le poche battute che ho riportato da Eleutheria, traendole dal saggio di H. Kenner), così come si noterebbe la misura del successivo distacco operato, soprattutto a livello di linguaggio, a cominciare da Aspettando Godot.
I rapporti tra uno scrittore come Beckett e una scuola drammaturgica come quella dell'assurdo, che ha indicato alcune linee basilari su cui si è incanalata l'estetica teatrale del novecento, non possono certamente essere commisurati in maniera paradigmatica, assumendo come termine di paragone il primo lavoro teatrale del drammaturgo irlandese, poiché, si tratta, in definitiva, di operare un'analisi oltremodo complessa a cui non sfuggirebbero alcune problematiche di ordine culturale e sociale, relative a Beckett e non ancora poste in luce.
Tuttavia ritengo che alcuni importanti documenti, quali le pochissime interviste rilasciate da Beckett o il suo carteggio con Alan Schneider, pubblicato frammentariamente in riviste che in Italia non compaiono (Chelsea Review ad esempio), servirebbero per mettere a fuoco ciò di cui parlavo prima, vale a dire alcune realtà di carattere soggettivo ed altre di carattere più propriamente letterario.
D'altronde un autore come Beckett, che non ha quasi mai fatto delle dichiarazioni su ciò che ha scritto, che si è quasi sempre rifiutato di offrire delle interpretazioni più o meno simboliche e unidirezionali ai suoi lavori, che non ha mai appartenuto ufficialmente ad un gruppo letterario ben preciso, deve anche essere analizzato sul piano umano, della biografia, di quei ricordi che spesso ossessionano i personaggi dei suoi drammi.
Fino a questo momento, anche se il giudizio non può che essere monco e poco obbiettivo a causa della distanza minima che ci separa da Beckett (l'ultimo lavoro, cui accennerò tra breve, è di quest'anno), non possiamo neppure parlare di epigoni o di autori che si avvicinino in qualche modo alle forme e ai temi della drammaturgia beckettiana: un paragone era stato istituito coi giovani « arrabbiati » inglesi, la generazione capeggiata da J. Osborne, che ha trovato poi una continuità (anch'essa però in piena autonomia, senza fossilizzarsi in un rapporto statico maestro-allievo) in A. Wesker e H. Pinter. È un paragone che a me sembra improponibile, soprattutto per la diversità degli aspetti tematici che caratterizzano i due tipi di teatro; da una parte il discorso gravita intorno all'uomo disintegrato e disancorato in un mondo in cui non riesce più a trovare spazio se non a livello fisico, dall'altra la problematica è meno ampia e si circoscrive ad un tipo particolare di società (per Wesker, almeno nelle prime commedie, lo scopo era quello di portare avanti un discorso politico-sindacale coerente con la sua estrazione sociale e col lavoro compiuto, mentre Pinter aveva in animo di analizzare alcune contraddizioni, soprattutto sul piano socio-umano, delle strutture in cui viveva).
Proprio per tale genere di considerazioni, non mi sento portato a dare una dimensione e una qualifica puntuali al ruolo di Beckett all'interno della realtà teatrale odierna; infatti occorre fornire, anche a livello metodologico, una precisazione: l'argomento del saggio era il teatro di Beckett e lo studio si è appuntato sulla messa a nudo del percorso seguito dall'autore, in concomitanza con le opere narrative, nel tracciare le linee della sua drammaturgia.
Volutamente cioè ho lasciato da parte un tentativo, anche se minimo, di analizzare Beckett come uomo di teatro, come coautore, insieme al regista, della messinscena delle sue opere.
Mi è parsa in questo caso una scelta opportuna operata sia per non appesantire la monografia, sia per non disperderne i modesti risultati ottenuti; tuttavia non si deve dimenticare che Beckett regista incarna un nuovo modo di essere drammaturghi, che è poi, in sostanza, quello brechtiano: il regista non è più il demiurgo della scena, come pensavano E. G. Craig o A. Appia, ma è in costante e reciproco rapporto con l'autore.
R. Blin e A. Schneider, nelle testimonianze che ho potuto leggere, hanno affermato che Beckett, quando segue le prove dei suoi drammi, è molto meticoloso (è sufficiente notare quanto sia circostanziato e accurato nelle didascalie) e soprattutto appare assolutamente a suo agio nei confronti di qualsiasi spazio scenico.
l problema della messinscena, divenuto il problema-chiave del teatro del novecento, condiziona la struttura e i contenuti dei soggetti drammatici beckettiani che, da Aspettando Godot fino a Va' e vieni, ci appaiono in una linea di progressivo affinamento e schematizzazione, oltreché a livello linguistico, anche a livello stilistico-f ormale.
Dal 1966 (anno in cui è stato scritto e rappresentato il « drammucolo » Va' e vieni) fino al 1973, Beckett ha composto per il teatro solamente un immenso e grande sospiro (Breath), che racchiude in pochi secondi una meditazione di natura espressiva durata parecchio tempo, e che sembra ora concludersi, sfociando nel dramma di una «bocca», Non io (Not I). Prima un silenzio per alcuni anni, poi un sospiro per alcuni secondi, e finalmente un fiume di parole.
Non si potrà essere sorpresi di ascoltare, dalla bocca dello scrittore, che egli sarà prima di tutto preoccupato, e fino alla follia, della bellezza formale.
Sembrerebbe un paradosso, per chi assiste a quello che crede essere il dibattito filosofico di Aspettando Godot, o segue, vivendola, l'incredibile lotta contro il tempo e la solitudine dell’Innominabile e di Malone muore.
Ma per chi si attacca ad una lettura innocente di Beckett, nota immediatamente come sia il linguaggio il soggetto dell'impresa.
In un tempo in cui il ripiegarsi della letteratura su se stessa, dà a qualche opera importante il valore demistificante di un esercizio di libertà e di umiltà di lavoro, questa condizione di riflessione si trovava già, si trova al centro del discorso beckettiano.
Le opere maggiori di Beckett affrontano tale problema; intendiamoci: all'inizio del libro uno scrittore è al lavoro, che si tratti di Molloy, di Malone, dell'Innominabile, di Krapp, di Hamm, di Henry stesso, degli attori separati di Commedia, di Winnie, o, a maggior ragione, dell'Apritore di Cascando e della voce che egli libera, non ha importanza.
Il supporto dell'opera è qualcuno che scrive direttamente, o parla, o racconta una storia, o tenta di raccontarla, o è costretto a scriverla e a raccontarla.
Quello che importa dunque è la necessità e il divenire della parola, che ha dinanzi a sé una strada del tutto aperta.
A partire dalla decisione (situabile nel racconto II calcante, ma dichiarata fino da Molloy) attraverso la quale il personaggio ha coscienza di dare alle parole il potere di raccontarlo, esso stesso viene condotto ad affidarsi alle parole.
Molloy ha avuto una storia, le parole s'incaricano di riprodurla, Moran ha avuto un'avventura, le parole s'incaricano ancora di ripeterla, fino a quando Malone affida a queste medesime parole, non più la funzione di fedeltà, ma la possibilità di uscire fuori dal loro giogo: la possibilità di uscire fuori da questa gogna del linguaggio che è giustamente la fedeltà ad una storia già vissuta, non detta.
Ormai la parola in marcia non sarà più solamente un veicolo, ma un qualcosa di mobile che si unisce al divenire di colui che parla.
C'è un rovesciamento di valori: al discorso che seguiva con attenzione il racconto, si sostituisce il racconto che segue con attenzione il discorso.
Il linguaggio si sviluppa con tutte le cure, tutte le precauzioni che garantiscono, che potrebbero garantire una probabile nascita dell'io.
Se la parola si ascolta organizzandosi, lo scrittore diventa subito estremamente diligente nel cogliere la sua funzione di rivelazione, il suo potere maieutico.
L'esperienza rigorosa del teatro riesce a rivitalizzare, attraverso la brevità e la nozione di fine, di sipario, di punto omega, questo mandato devoluto al flusso delle parole.
Il dialogo e la brevità della parola a teatro spezzano questo flusso in arcipelaghi: o lo ritmano, lo scandiscono spesso fino ad una rottura che rappresenta una denuncia del compiacimento passato.
Le nozioni di fine e di sipario mettono l'accento in qualche modo sulla conclusione da trovare, sulla storia da finire.
Tutto tende verso Godot, tutto tende verso il Finale di partita, tutto è indirizzato verso il ritorno a casa dei coniugi Rooney, la loro caduta, il loro totale degrada-mento, in Krapp la fine è molto vicina: anche se essa è vissuta come un qualcosa su cui non c'è più nulla da raccontare, anche se la fine non viene, si direbbe che, nonostante tutto, sarebbe la benvenuta; ci si augura di finire, bisogna finire, perché il passato è troppo lontano per poter essere di nuovo recuperato e il presente immenso, perché possiamo sforzarci di coglierlo nelle sue sfumature.
Non rimane dunque che lasciar parlare l'individuo in un continuo superamento di se stesso:
Non voler dire, non sapere ciò che si vuol dire, non poter dire ciò che si crede di voler dire eppure sempre dire o quasi.
Questo sforzo dello scrittore, che sta ad indicare come l'essere tutto tendesse di per sé verso la parola che potesse realizzarlo e come parlasse egli stesso di questa tensione e di questa attesa, viene portato alle sue estreme conseguenze sul piano espressivo-verbale e sul piano strutturale nell'ultimo lavoro teatrale.
Allo spettatore viene presentata dalla consueta minuziosa accuratezza beckettiana,
bocca — a destra del pubblico — in fondo al palcoscenico (circa due metri e mezzo dalla ribalta), debolmente illuminata da vicino e da sotto.
Accanto a «bocca»,
l'Auditore, a sinistra del pubblico, vicino alla ribalta. Figura alta, in piedi, sesso indeterminato avvolto dalla testa ai piedi in una djellaba nera, con cappuccio. Illuminata in pieno, ma debolmente, sta su un podio invisibile, a circa 1,75 di altezza. Dal suo atteggiamento si capisce che guarda diagonalmente attraverso il palcoscenico, in direzione di Bocca .
Il traduttore J. Francis Lane avverte che Beckett, dopo aver seguito le prove londinesi di Non io, ha deciso di eliminare alcuni movimenti (per la precisione quattro) che intervallavano il lungo monologo di bocca», riducendo la partecipazione dinamico-gestuale dell’« auditore » ad un unico movimento finale di lento sollevamento delle braccia verso la testa, con un gesto « di compassione impotente ».
Per il resto Non io rappresenta, fino a questo momento, un primo tentativo compiuto da Beckett di compendiare tutta la propria produzione drammaturgica, in un quadro emblematico ben preciso, anche se ciò non significa una preclusione rispetto a posizioni di ricerca e di sperimentazione.
Mi pare che il monologo di «bocca», un incessante e ossessivo sciorinamento di parole, se da una parte si ricollega ai moduli tipici usati dai personaggi beckettiani per mettere a nudo il proprio isolamento, (pensiamo a Winnie di Giorni felici, a Krapp, a Henry di Ceneri che parlano con se stessi e di se stessi continuamente) da un'altra assume una fisionomia diversa, proprio perché sembra che il personaggio non attui un rapporto di privilegio neppure con se stesso, ma anzi rifiuti quasi di entrare a contatto con ciò di cui parla e si esprima con distacco.
In realtà la distanza da sé, cioè la frantumazione dell'individuo che si spersonalizza, assume un suo significato all'interno del processo involutivo, di degradazione che subisce l'individuo-persona, identificato da una parte fisica di esso, dalla bocca.
La riduzione progressiva del personaggio (ricordiamo la palpebra in Film, e l'azione mimica di Keaton che cerca di coprire e di nascondere tutto quello che si presenta come visuale, come sguardo) viene qui portata alle sue conseguenze ultimative: Beckett fa parlare una «bocca» non come se fosse un fantasma o con l'intenzionalità di un artificio scenico, ma sapendo che dietro di essa c'è tutta una sostanza drammatica da recuperare, ci sono degli individui, delle persone con il peso caratteristico dei problemi eterni del mondo beckettiano, il problema del tempo, il problema dei ricordi e della ricerca del passato, il problema dell'assoluto, il problema del linguaggio come comunicazione e come vita.
E tutto questo noi saremmo tentati di chiamarlo tragedia, accomunando i viaggi mancati, le cadute, l'immobilità stagnante, l'incarcerazione nella giara: tutto trova qui il suo risultato finale e la sua giustificazione.
Il percorso iniziato da Beckett portava di per se stesso ad un linguaggio estremamente attento, la riduzione del personaggio e il lento assottigliarsi dell'elemento linguistico erano una preparazione a questo sradicamento essenziale, attraverso il quale Tessere passa totalmente col suo respiro, coi pericoli che corre, col presente che sopporta, con la vita che riempie.
Anonimato, solitudine e crudeltà sono i termini finali di un discorso che, iniziato fin dalle prime opere, continua ancora nella direzione di un superamento costantemente tentato, dell'ostinazione a parlare.

tratto da
Dario Ventimiglia
Il teatro di Samuel Beckett
Liviana Editrice, Padova, 1973


Le Musiche, scelte da Claudio Tesser

Emil Gilels, Sonata per pianoforte op.57 (Ludwig van Beethoven)
 

 
 

Logo di articolo:

Lettera autografa (1982) di Samuel Beckett a Dario Ventimiglia, nella quale il drammaturgo approva la traduzione di "Ohio Impromptu" e "Rockaby" (all'epoca non ancora editi in Italia) da parte di Franco Ventimiglia e Claudio Tesser, nonché l'autorizzazione a rappresentare i due atti unici, messi in scena nello stesso anno, a Venezia e in altre città d'Italia, dalla compagnia "La Bottega del Teatro" diretta da Dario Ventimiglia.



 
 

    audio

loading... loading...