ReadBabyRead #84 del 2 agosto 2012


Fernando Pessoa: "Tabaccheria"

2 Agosto 2012


Fernando Pessoa

Tabaccheria


per info su Franco Ventimiglia e Claudio Tesser:



www.letturaealtricrimini.it



Legge: Franco Ventimiglia


Antonio Tabucchi
Un baule pieno di gente
Scritti su Fernando Pessoa


Quando si parla di Ferdinando Pessoa si ha la sensazione di dover inevitabilmente percorrere due strade parallele e apparentemente inconciliabili; tutto in perfetta congruenza con quello che il poeta e i suoi eteronimi sono stati in vita e hanno lasciato nel baule. Prima la strada biografica di una esistenza reale (reale per Pessoa e realmente immaginata per gli eteronimi), un’esistenza apparentemente insignificante o, comunque, priva di qualsiasi interesse artistico - Pessoa visse in modo quasi anonimo esercitando la professione di impiegato di concetto in una ditta di import-export - e in secondo luogo la strada delle loro opere, di quella sconfinata produzione apparentemente disomogenea e disorganizzata, che deve ancora, in parte, essere studiata, ricostruita e resa pubblica.
Nulla sembra essere più complessa della vicenda umana ed artistica di colui che ormai viene considerato uno dei massimi poeti del Novecento. L’opera del portoghese, frammentata e distribuita tra lui e i suoi eteronimi (le sue crature letterarie) appare come un frastagliato campo di specchi che irradiano, riflettendosi l’un nell’altro, cenni, anche contraddittori, della complessa e spesso incomprensibile coscienza del suo creatore. Sotto questo aspetto è possibile affernmare che Pessoa, essendo autore di autori, è autore quintessenziale, o meglio la qintessenzialità dell’autoralità. Mai, come nel suo caso, vita (e vite immaginate: molti dei suoi eteronimi hanno un’anagrafe e vivono un tempo diacronico) e opera divengono inscindibili tratti della stessa esperienza esistenziale. Solo apparentemente egli riuscì a mascherare la sua -e dei suoi eteronimi- anonima esistenza. Essa ritorna come limite da cui parte tutta la produzione artistica; di più, essa è il silente carburante che alimenta la vita fantasmatica della pratica letteraria.

La frase emblematica che, uscita dalla stessa bocca di Pessoa, chiarisce questa posizione dice: "la letteratura, come tutta l’arte è la dimostrazione che la vita non basta".
Il tentativo che si propone questo splendido libro, attraverso alcuni scritti di Antonio Tabucchi, traduttore e massimo conoscitore italiano dell’opera di Pessoa, è quello di chiarire la complessità della personalità del poeta di Lisbona attraverso un’attenta, ma mai pedante, analisi di alcune caratteristiche della sua produzione letteraria. Innanzitutto la costruzione degli eteronimi: "Pessoa è l’eteronimia: parlare semplicemente di artificio letterario sarebbe sufficienza e presunzione"; e cioè di quello strano meccanismo della coscienza che ha fatto si che Pessoa fosse sia autore, che autore di autori; la costruzione di personaggi fittizzi che lui dotò di generalità anagrafiche, di personalità e di ricordi, di gusti e capacità poetiche e critiche differenti. Infatti in Pessoa vivono anche Alberto Caerio, suo maestro ed amico, poeta schivo, solitario e contemplativo; Alvaro de Campos, ingegnere navale non esercitante e personaggio avanguardista dal gusto decadente e un po’ blasé; Ricardo Reis, polemico concorrente di de Campos e amante delle perfette forme classiche; Bernardo Soares, piccolo impiegato contabile che ne "Il libro dell’inquietudine" lascia un grande esempio di "antiromanzo"; ma anche molti altri personaggi come Frederico Reis, Alexander e Charles Search, Barão de Teive, António Mora, Abílio Quaresma e tanti altri.

Tabucchi presenta i vari eteronimi e senza la presunzione di voler essere soddisfacente, abbozza una spiegazione parziale sul perché della genesi di questa eteronimia. L’ipotesi è quella della necessità di diventare "altro da sé" senza tradirsi in un continuo bilancio e scambio tra "normalità" e "follia"; un processo in cui gioco e finzione costituiscono la pratica necessaria: "Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente."
Coscienza estrema e inadeguatezza alla vita, rifugio nella banale quotidianità e, per contro, nella letteratura, incontro e scontro con la metafisica, scoperta del "momento sensitivo e competente", sembra essere l’itinerario chiave (o almeno uno tra i possibili) che accompagnano e influiscono la produzione artistica dell’autore. Tabucchi traccia questo itinerario interpretativo partendo dalle opere e da tutto quanto l’autore ha lasciato nel suo baule: dalla produzione poetica, i suoi vari scritti sui più vari argomenti, le lettere testimonianza dell’unica e travagliata storia d’amore avuta con Ofelia Queiroz. Ma prende anche in considerazione tutto quello che si sa della sua vita, le sue abitudini e le sue fotografie (splendido il saggio "Un fil di fumo" in cui disegna una arguta interpretazione, alternativa a quella freudiana, alla ritualità/necessità del fumo in Pessoa e Svevo).

Leggendo queste pagine appare evidente come, per Pessoa, la vita sia una misteriosa, insondabile superficie: "Ho per la vita l’interesse di un decifratore di sciarade"; così come la sua vita esteriore una copertura per la pratica tutta interiore della scrittura. Eppure da alcuni suoi versi scaturisce una tensione emotiva e creativa talmente forte da trovare affrancamento unicamente nella pratica, solo apparentemente superficiale, della sensazione; una tensione che può affiorare per palesarsi all’esterno solo tracimando da se stessa in una sorta di incontenibile, imbarazzante eresia esistenziale (ogni uomo messosi a nudo diviene, per gli altri, fonte di turbamento). E così, per Alvaro De Campos: ..."Mi sono moltiplicato per sentire,/ per sentirmi, ho dovuto sentire tutto,/ sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi,/ mi sono spogliato, mi sono dato,/ e in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente"

Una nota scritta in calce qualche anno dopo in riferimento al fastidio, alla difficoltà e al disagio che provoca la lettura di alcuni scrittori del novecento tra i quali Kafka, Pessoa, Joyce e Celine :

Kafka è ostico alla lettura e spesso fastidioso nei contenuti, ma il fastidio, così come il disagio e la difficoltà, è forma emblematica della letteratura e dell'arte del novecento che ha scoperchiato il vaso di Pandora mettendo a nudo l'essere umano, descrivendone anche l'oscura forza annichilente (non è un caso che, storicamente, nel novecento, con Freud, Jung e la psicologia del profondo si sviluppano anche le due forme più aberranti della guerra di annientamento più radicale: nazismo e atomica). In letteratura Kafka è l'espressione più sconcertante e affascinante del fastidio novecentesco, Joyce ne è l'aspetto più sintomatico e profondo, mentre Celine il più realistico e sconcertante.

Per contro Pessoa, con i suoi eteronimi, ne è invece il lato più creativo e sorprendente, ma comunque non lieve, ma sempre pesante e misterioso. Posso essere d'accordo sul fatto che (parafrasando Kundera) "la vita sia altrove", ma la letteratura è e deve essere "oltre la vita", uno specchio che non necessariamente si proponga per una graziosa "toilette de circostance"

Rocco Delillo


Tabaccheria
di Fernando Pessoa

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo.
 
Finestre della mia camera.
della mia camera di uno dei milioni del mondo che nessuno sa chi è
(e se sapessero chi è, che cosa saprebbero?),
date sul mistero di una strada attraversata costantemente da gente,
su una strada inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
col mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che insinua umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
col destino che guida la carretta di tutto per la strada di niente.
 
Oggi sono vinto, come se sapessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato, e questa casa e questo lato della strada dventassero
la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
dal dentro della mia testa,
e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell'avvio.
Oggi sono perplesso, come chi ha pensato e trovato e scordato.
Oggi sono diviso fra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dirimpetto, come una cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.
 
Ho fallito in tutto.
Poiché non ho fatto nessun proposito, forse tutto era niente.
 
Dall'insegnamento che mi hanno dato
sono sceso attraverso la finestra sul retro.
Sono andato fino in campagna con grandi propositi.
Ma là ho trovato solo erbe e alberi,
e quando c'era gente era uguale all'altra gente.
Mi allontano dalla finestra, mi seggo su una sedia. A che devo pensare?
 
Che cosa so di quel che sarò, io che non so cosa sono?
Essere ciò che penso? Ma penso di essere tante cose!
E ci sono tanti che pensano di esser la stessa cosa che non ce ne possono essere tanti!
 
Genio? In questo momento
centomila cervelli si credono in sogno geni come me,
e la storia non ne registrerà, chissà?, neppure uno,
e non resterà che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi insensati con tante certezze!
Io, che non ho nessuna certezza, sono più certo o meno certo?
 
No, neppure in me...
In quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno sognando a quest'ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte e nobili e lucide
- sì, proprio alte e nobili e lucide -
e magari anche realizzabili,
non vedranno mai la luce del sole reale né troveranno ascolto?
 
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di conquistarlo, anche se ha ragione.
Ho sognato più di quanto Napoleone non abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo,
in segreto ho fatto filosofie che nessun Kant ha mai scritto.
Ma sono, e forse resterò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non era fatto per questo;
sarò sempre soltanto quello che aveva qualità;
sarò sempre quello che si aspettò gli aprissero la porta in una parete senza porta
e cantò la canzone dell'Infinito in un pollaio,
e sentì la voce di Dio in un pozzo tappato.
Credere in me? No, né in niente.
Che la Natura mi sparga sulla testa ardente
il suo sole, la sua pioggia, il vento che mi trova i capelli,
e il resto che venga se verrà, o se deve venire, oppure non venga.
 
Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso è estraneo,
siamo usciti di casaed esso è la Terra intera,
più il sistema solare e la Via Lattea e l'Indifinito.
 
(Mangia i cioccolatini, piccola;
mangia i cioccolatini!
Bada che al mondo non c'è altra metafisica che la cioccolata.
Bada che tutte le religioni non insegnano più della confetteria.
 
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolata con la stessa verità con cui la mangi tu!
Ma io penso: e quando tolgo la carta argentata, che poi è di stagnola,
butto tutto per terra, come ho buttato la vita).
 
Ma almeno resta, dell'amarezza di ciò che mai sarò,
la calligrafia rapida di questi versi,
portico rotto sull'Impossibile.
Ma almeno riservo a me stesso un disprezzo senza lacrime,
nobile almeno nel gesto ampio con cui getto
i panni sporchi che io sono, senza elenco, sul decorso delle cose,
e resto in casa senza camicia.
 
(Tu che consoli, che non esisti e per questo consoli,
dea greca, concepita come statua vivente,
o patrizia romana, impossibilmente nobile enefasta,
o principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
o marchesa del Settecento, scollata e glaciale,
o cocotte celebre del tempo dei nostri padri,
o non so che cosa moderno - proprio non saprei cosa -,
tutto questo, qualunque cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invocano spiriti invoco
me stesso e non trovo niente.
Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con una nitidezza assoluta,
vedo gli enti vivi vestiti che si incrociano,
vedo i cani, che anch'essi esistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all'esilio,
e tutto questo è straniero, come tutto).
 
Ho vissuto, studiato, amato e perfino creduto,
e oggi non c'è accattone che io non invidi solo perché non è me.
Guardo gli stracci e le piaghe e le menzogne di ciascuno
e penso forse non hai mai vissuto né studiato né amato né creduto
(perché è possibile fare la realtà di tutto questo senza far niente di questo);
forse sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
e che è coda al di qua della lucertola agitatamente.
 
Ho fatto di me quanto non ho saputo,
e quanto potevo fare di me non l’ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno subito riconosciuto per chi non ero, e non l’ho smentito e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
era attaccata al mio viso.
Quando l’ho tolta e mi sono visto allo specchio,
ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho buttato via la maschera e ho dormito nel guardaroba
Come un cane tollerato dalla gestione
Perché inoffensivo,
e voglio scrivere questa storia per provare che sono sublime.
 
Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari potessi incontrarti come una cosa fatta da me
e non restassi sempre dirimpetto alla Tabaccheria dirimpetto
calpestando la coscienza di stare esistendo
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno zerbino rubato dagli zingari che non valeva niente.
 
Ma il Padrone della Tabaccheria si è fatto sulla porta e vi è rimasto.
Lo guardo col disagio che dà la testa girata a metà
E col disagio che dà l’animo quando ha per metà inteso.
Lui morirà e io morirò.
Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi.
 
Poi morirà la strada dove fu l’insegna
E la lingua in cui furono scritti i versi.
Infine morirà il pianeta ruotante in cui tutto ciò avvenne.
In altri satelliti di altri sistemi, qualcosa simile a gente
Continuerà a fare cose come versi e a vivere sotto cose come insegne,
sempre una cosa di fronte all’altra,
sempre una cosa inutile quanto l’altra,
sempre l’impossibile stupido quanto il reale,
sempre il mistero del fondo, certo come il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre un’altra cosa, oppure né una cosa né l’altra.
 
Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprae del tabacco?),
e la realtà plausibile si abbatte all’improvviso su di me.
Mi raddrizzo energico, convinto, umano,
e mi riprometto di scrivere questi versi per sostenere il contrario.
 
Accendo una sigaretta meditando di scriverli
e assaporo in essa la liberazione di tutti i pensieri.
Seguo il fumo come una rotta autonoma
e godo, in un momento sensitivo e competente,
la liberazione da tutte le speculazioni
e la consapevolezza che la metafisica è l’effetto di un’indisposizione.
 
Poi mi reclino sullo schienale della sedia
e continuo a fumare.
Finché il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.
 
(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
forse sarei felice).
Stabilito questo, mi alzo e vado alla finestra.
 
L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilandosi in tasca il resto?)
Ah, lo conosco: è l’Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria si è fatto sulla soglia).
Come per istinto divino Esteves si è girato e mi ha visto.
Mi ha fatto un cenno di saluto, io gli ho gridato “Ciao Esteves!”, e l’universo
mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il Padrone della Tabaccheria ha sorriso.
   
(Traduzione di Antonio Tabucchi)



Le Musiche, scelte da Claudio Tesser

Advent Chamber Orchestra, (David Parry e Roxana Pavel Goldstein, violini), Concerto per 2 violini e orchestra in re minore BWV 1043 (Johann Sebastian Bach)
David Sylvian, A fire in the forest (remixed by readymade FC)

 
 

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