Mannarino - Intervista e Live Report

Teatro Toniolo, Mestre, 18 Marzo 2012

22 Marzo 2012

Alle signore con le guance arrossate dal calore di questo teatro,
ai signori sempre occupati dai loro affari,
a coloro che non sanno ascoltare,
a quelli che non sognano neanche più.

Buonasera.

Intervista

Sono un povero pazzo, ma se mi permettete, sono qui per raccontarvi delle storie. Storie davvero molto belle. Vorrei farvi lacrimare copiosamente, vorrei farvi asciugare le guance di sorrisi e gioia, vorrei che vi si arrugginissero le ragioni e vorrei anche vi innamoraste per un poco. 

Mi sono imbattuto in un viaggio abbondante, calpestando ciascun cantone della Terra. Ho incontrato grandi animali e specie bizzarre di esseri umani. Ho goduto di molte dimore, ma mai trovato un posto che fosse casa. Ho visto sfumare molti mari, ho faticato sulla schiena di molte montagne, ho riposto i pensieri nei verdi più accesi e nei blu più elettrici. Lasciatemi raccontare.

Avete mai iniziato dall’Ultimo Giorno Dell’Umanità? Ne capitano molti. Di questo genere di giorni. Tante piccole fini che fanno assieme un inizio. Da una finestra, quel giorno, vidi un uomo porgere la più bella delle rose a una donna. Da quella finestra lei fece sbocciare il più tenero sorriso e il più dedito abbraccio. E non curandosi più della sorte, li vidi chiudere le tende e voglio immaginare che siano amati senz’altre remore. In strada un uomo prese la mano del figlio e gli indicò nomi, definizioni e regole, ma gli disse anche che non ricordava più a cosa servissero. Io ne rubai loro qualcuno e cambiai città.

Prima di andarmene, m’insegnarono che la vita è cosa da poco tempo ed io, allora, pensai che avrei dovuto compiere grandi imprese.

Nell’angolo di una stazione, incontrai la nebbia e le voci. Raccontavano di un uomo. Dicevano fosse indecoroso e quelli che invece si curavano d’esser sempre puliti e corretti, lo chiamarono Osso Di Seppia. Dopo aver scocciato gli osti e spaventato con leggiadria le vecchiette, mi dissero fosse finito in un bel posto, in uno di quei posti dove di ricchezze non ne esistono. La pelle si lava da sola, basta far sogni puliti. Ho sperato invano di capitarci pure io, in una landa marina del genere.

Una sera mi fermò un ubriaco, mi raccontò una vicenda di due soli protagonisti, La Strega e Il Diamante. Un mattino aveva deciso di cambiar strada, di andar sempre dritto. Capite bene che è ardua per uno così dedito ad affogar tutti i pensieri. Trovò il canto di una donna, un canto strano. Cadde per la sorpresa, caddero le lacrime e il sangue. E cadde così pure la sua maschera. E non i suoi vizi.

In una delle città più piccole, arrivai proprio coincidente alla morte di un Onorevole personaggio. Ve lo devo dire: questa è la storia più struggente. L’uomo moriva almeno cinque o sei volte l’anno, moriva la sua decenza, il suo onore, la sua morale. Alla fine morì il corpo. Una vita piena di rispetto, riempita d’onore, e farcita di niente. Da che fece finta di non aver mai avuto paura e fece anche finta di non aver mai amato nessuna. Nessuno poi si ricordò più di lui.

Una volta mi son fermato in una piazza. Aspettai che Il Pagliaccio smettesse il suo spettacolino e mi feci raccontare anche la sua di storia. Lui si diede una pulita alle braghe, si sistemò il cappello e mi spruzzò acqua negli occhi. Al mio sguardo irrigidito, si lamentò di quanto fosse strana la gente.
- Come quel signore lì - fece indicandomi un punto indistinto nella folla, quel signore lì, col cappio al collo, che dice a tutti che porta la cravatta.

Anche a me sembrava una cravatta. Mi sono allontanato perché alle sue, di storie, non ci volli credere. Non volli credere a lui, ma forse non volli credere a me per primo. Che non riuscivo più a piangere, che mostravo sempre grandi sorrisi e occhi pieni di lacrime, e suvvia. Non riesco a morire.

Giunsi in un porto. Tutte le donne cantavano lavando i panni, non lavandoli, quelle che portavano bei vestiti corti, quelle con le scarpe coi tacchi, quelle piccole e rotonde e quelle alte e scarne. Cantavano tutte di Marylou, colei che aveva rubato il cuore a tutti gli uomini in città. Rubando cuori aveva regalato tormenti. Tutto questo m’appesantiva. Rimasi poco. Anche perché troppe donne tutte insieme, che miracolo. Ma queste mica sorridevano. Anzi.

Per strada trovai un vecchio, che piangendo mi spiegò che aveva perso tutte le rotelle. Quando l’Amore Se Ne Va, mi diceva. Che se ne va ne arriva un altro, pensai. E invece no. Ogni anima è una barella, ogni persona diversa un confessionale, una notte ancora un nuovo incubo. E mi raccontò anche che era solito pensare che il suo amore non sarebbe mai fuggito, Statte Zitta! Le ripeteva. E poi finì a raccontarlo a più sconosciuti che poteva. E tutti gli davano ragione, che te ne fai della vita, dei denari, del cibo, che te ne fai del tuo lavoro, se tornando a casa non trovi più il tuo bacio caldo, i suoi capelli che si diramano sul tuo cuscino, i sorrisi che muovono la pancia e le camicie rubate.

Io gli augurai di trovar pace. Auguri.

Poi la vidi. La Maddalena perduta e spaventata. Cercava il suo posto e nel cercare, baciava tutti gli uomini, e quelli che non baciava, abbracciava. L’aveva trovato, e fu amore e fu rivoluzione! Furono grida dolci e furono denti perduti. Venne da me e mi disse che aveva provato in tutte le maniere a giustificare l’amore che non provavo per lei, come un miracolo. Ho pensato fosse simile a pestar la merda di un cane e ripetersi al varco che porterà fortuna. Ma mi sbagliavo io. Io che non amavo, sapevo che sbagliavo.

Al Tevere Grand Hotel permasi per un tempo infinito. Lì girava molta, moltissima umanità. Chi ruba vendendo cose di cui nessuno ha bisogno, chi invece ruba direttamente dai taschini, chi si rassegna alla rovina. E poi i disperati, i disgraziati, quelli che portano maschere di fortuna, chi s’accontenta d’essere molto mediocre. E chi invece ha l’anima molto corposa. Da una di quest’ultime, ascoltai la più disperata Serenata Lacrimosa, la sbraitava un ragazzo indignato, ce dicono de vivè da morti, pe poi resuscità. Usava una lingua strana, ma era come se usasse quella contenuta dalla mia bocca. Eravamo uguali davvero, nelle idee. E udii anche un uomo parlare del Bar della Rabbia, di bicchieri che non dissetano, spose irascibili e bambini sognatori. Era un uomo molto solo e molto felice nell’esserlo. Ma scetticismo nasconde profonda sofferenza. Provai pena e compassione. 

Alla fine fui stroncato.

Capitò sul finire di Maggio. Capitò nel ritornello di una o forse due canzoni. Incontrai L’Amore Nero. E io mi sentii come se m’avessero strappato via il cuore e mi avessero lasciato un buco. Ero disperato, sanguinavo ovunque. Mi ripetevo che non era giusto, per una notte di vino, stavo pagando cento giorni d’aceto. Ci avevo creduto, alla devozione, ai suoi fianchi e alle mie esplosioni. Con un vuoto nel petto, nello stomaco, nel cervello e nella pancia e con una bottiglia immediatamente vuota, ascoltai l’ultima delle storie.

E fu incantevole. Presi le mani di una donzella, lei urlò Scetate Vajò e la gonna iniziò ad alzarsi. Ballammo fino al giorno seguente, e quello dopo ancora, e pure le settimane che seguirono, i mesi, gli anni. Avevamo alle spalle storie ingrate e avevamo percorso strade indecenti, ma eravamo appagati. Coi piedi nudi, spaccati, e non provavamo dolore.

Capii.
Terminò il mio viaggio.
Perché era lei, era la mia casa.
Il mio rifugio, il porto e la partenza.

Foto del live

 
 

Alessandro Mannarino nasce a Roma nel 1979. Ci ha donato un’accozzaglia di storie, raccolte tra il Bar della Rabbia (2009, Leave-Universal) e Supersantos(2011, Leave music); muovendosi in uno spettro troppo ampio di situazioni umane e tendenze musicali.

Musiche d’altri porti, vicende contaminate, sguardi surrealisti e resoconti d’indecente tenerezza.  Infila tutto in una piccola valigia, e ne regala un po’ a ciascuna delle sue devote folle. La scorsa notte al Teatro Toniolo di Mestre ha fatto innamorare vigorosamente il suo chiassosissimo pubblico.

Si sta muovendo lungo lo stivale nell’Ultimo Giorno Dell’Umanità Tour, gioitene: info.

 
 
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