The horror has gone

di Carla Vitantonio

14 Dicembre 2011

Quattordici dicembre duemileundici, e mi chiudo la porta alle spalle con un discreto ritardo sulla vita. La strada é quella di tutte le mattine, discesa furibonda fino a Itaewon, attraversamento selvaggio della strada a trentacinque corsie, salto mortale, tiro della palla infuocata, corsa a ostacoli con draghi digiuni che mi inseguono sputando fuoco, duello con Katana con la hostess che tutte le mattine vorrebbe infilarmi nella lista d’attesa dell’ospedale di cui fa la bidella, ultimi scatti rigorosamente in salita e poi finalmente, dopo il rigido esame di un altro implacabile bidello che siede all'ingresso dell’edificio, finalmente arrivera` la rassicurante noia della mia scrivania.
Mentre mi esibisco alla perfezione in questa nuova disciplina olimpica nota come “arrivo sul luogo di lavoro in tempi umani” mi passa davanti la mia Seoul.

Gli Apat, altissimi agglomerati di appartamenti  che da soli contengono più abitanti della città di Campobasso, i loro ascensori divisi per piani pari e piani dispari, con i televisori per non dover parlare coi vicini e l’aria condizionata (d’estate) o il riscaldamento (d’inverno).
Le residenze di ambasciatori, segretari, industriali e via discorrendo, ogni residenza col suo cancelletto, ogni cancelletto con la sua guardiola, ogni guardiola col suo omino il cui unico ruolo é quello di ricordare al padrone, già dall’ingresso in casa, che esiste qualcuno più in basso di lui nella gerarchia sociale.

I department-stores e le loro boutiques di stelline e brillantini, di addobbi di natale, di magrissime coreane con lo stomaco dimezzato e il portafogli straripante che si mettono in lista d’attesa per avere l’esclusiva borsa di sarcazzo chi, di aitanti coreani vestiti esattamente come nella gigantografia pubblicitaria che troneggia dietro di loro, di fontane dove ogni 15 minuti partono i giochi acquatici, tripudio di elettricità ed energia atto solo a dimostrare la potenza il lusso lo sfarzo lo spreco.
Le automobili immense che puntualmente bloccano il traffico perche` sono troppo grosse per le stradine del centro.
Le porte girevoli, gli addobbi, gli happy christmas, le cliniche estetiche, le lucine, le musichette, il riscaldamento a go-go.

Cammino cercando anche oggi di portare l’osso del collo intatto di fronte alla mia scrivania e vedo pure le signore di sessant’anni che non hanno la pensione e per sopravvivere stanno in un baracchino di un metro e mezzo per due cuocendo riso per farne tok, che poi vendono in confezioni da mille won, con qualsiasi condizione meteorologica.

Vedo il vecchio fruttarolo che dorme nel camion insieme alla sua frutta e la mattina alle otteccinquanta, mentre svolto nella stradina laterale dove lui parcheggia, sta allestendo i suoi cachi e le sue pere cinesi. 
Vedo due ubriachi che vengono gentilissimamente ma fermissimamente spintonati fuori dall’ospedale. 
Vedo le signore delle bancarelle del mercato, che dormono nel gabbiotto insieme ai vestiti. 
Vedo il barbone che finalmente si é infilato nella metropolitana, appena riaperta dopo la chiusura notturna, dove c’e` il riscaldamento a palla e la sopravvivenza diventa possibile anche durante l’inverno di Seoul. 
Vedo le donne di Itaewon che chiudono il loro street cafè col trucco disfatto e la minigonna strappata, stanche devastate e pure soddisfatte per essersi guadagnate anche l’ennesima nottata grazie a qualche occidentale appassionato di turismo sessuale. 

Tutto questo vedo, e tutto insieme, mi sbatte in faccia addosso con una violenza che mi ferisce, e non lo posso accettare non lo posso ingoiare eppure ci sto in mezzo e mi ci mescolo, cammino veloce e piccolissima in mezzo ai grattacieli di Seoul e alle sue mille contraddizioni e mi domando cosa non funzioni, mi chiedo dove stia la falla in questo modello asiatico dell’iperproduttivita` ad ogni costo, dell’apparire prima ancora che dell’esistere, mi domando tutto questo e per un attimo mi viene voglia di tornare in Italia.  

Poi proprio mentre mi sto adagiando al pensiero di un ritorno, dei compagni, della lotta, della città dagli odori conosciuti, proprio mentre lo sto facendo mi ricordo che ieri uno studente e` morto sepolto dal crollo di un palcoscenico. E lui stava lì perché ci lavorava, precarissimamente, proprio come ho fatto io per tredici anni della mia vita, e come fanno molte delle persone che conosco.
Ecco il lavoro one shot, ti chiamano ci vai ti massacri di pagano una miseria ma intanto hai i soldi per andare avanti qualche giorno mentre studi o provi a fare lo stronzissimo mestiere per cui avresti studiato. Salvo poi quando casca il palco e l’artista di turno scendendo soavemente dalle sue nuvolette a sette zeri dichiara sconvolto di non saperne nulla, dei subappalti delle speculazioni e dei lavoratori sottopagati. Che viene da domandarsi dove viva, l’artista di turno. Forse il coniglio di Alice lo mette a letto ogni sera raccontandogli la storia del buon noncompleanno mentre gli operai sottopagati costruiscono il suo palco e se tutto va bene questa volta nessuno muore. 

E penso pure che ieri a Firenze sono morte due persone, morte ammazzate, semplicemente e stupidissimamente e rabbiosissimamente per il colore della loro pelle, che sono state ammazzate perche` erano nere, con tutto cio` che questo comporta in un certo immaginario popolare, sono state ammazzate mentre lavoravano in un paese di merda che non e` nemmeno il loro e dove stavano perche` avevano sperato di avere diritto a una vita migliore. E per questo sono state ammazzate.Penso al campo rom e al linciaggio sfiorato a causa di una menzogna, perche` la morale bigotta di alcuni pezzi di societa` non vede l’ora di scaricare il peso della colpa sullo zingaro di turno.
Siamo tutti li` che aspettiamo il momento buono per trovare il prossimo extracomunitario violento sessuomane rapinatore mostro. Cosi` ci saremo lavati la coscienza di tutte quelle volte in cui abbiamo discriminato, offeso, maltrattato, abusato, semplicemente in nome della nostra superiore europeità. 
Penso a questo. Penso a tutti i coreani che non si siedono vicino a me in metro, semplicemente perche` sono bianca. Penso all’Europa all’Asia ai modelli al welfare a questo crollo globale al quale mi sembra di assistere e continuo a domandarmi quale di questi due orrori cui sto assistendo sia il peggiore, da dove devo fuggire, dove devo andare a resistere.
E la risposta non ce l’ho, perche` sono una miserabile lavoratrice precaria che in Corea come in Italia lavora a nero e non sa mai come arriverà alla fine del mese, perche` devo stare ai giochi e ai capricci dei più forti, perche` posso permettermi di lottare solo fino a quando non mi hanno sbattuta fuori dall'ennesimo posto di lavoro.
Non ce l’ho la risposta, ma oggi é 14 dicembre. 
Penso a un viaggio in autobus di un anno fa.
Al fuoco, al calore, alla rabbia, ai diritti.
Al Socio col naso bendato, penso.Alla cioccolata nascosta nella sua giacca.
A Fuipp che mi racconta di Marsiglia.
Alla Fla, ad Alice e a tutti gli altri.Alla basilica di San Luca.
Ai miei compagni, e alle mie compagne, penso. E se mi aggrappo a questo pensiero, in qualsiasi orrore io stia vivendo adesso, mi viene una sorta di speranza. 
Allora respiro, allungo il passo, sorrido all’ennesimo bidello, passo oltre. 
 
Io non vengo dalla luna.

 
 

Tratto da:
www.lucilleidi.net

 
 
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